Il Tar “boccia” i piani sardi di JP Morgan
Il provvedimento dei Giudici rigetta il ricorso di Sonnedix, la società della Banca americana: non sono aree idoneePer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Il nome, come al solito, è criptato. Un paravento anonimo per nascondere il colosso di turno, anche questa volta venuto da lontano. Un castello di società, un coacervo di soci pronti a spartirsi, prima del tempo, un capitale sociale capace di far lievitare dal nulla quote infinitesimali, sino a trasformarle in una vincita miracolistica al “gratta e vinci” di Macchiareddu. I signori venuti da oltre Oceano per sbancare le pendici dell’Oasi del Cervo, tra Assemini e Uta, però, non avevano messo in conto che quella “puntata” sulla roulette del sole di Sardegna sarebbe stata, come non mai, ad alto rischio. L’operazione era stata tutta giocata nelle segrete stanze di notai e commensali toscani, tutti pronti ad incassare lauti compensi per quella cessione societaria che nascondeva il più pesante degli acquirenti, la più potente banca d’affari americana, la JP Morgan.
Scandicci & Monte Arcosu
Una di quelle “scommesse” consumate tra le rive dell’Arno, nel borgo fiorentino di Scandicci, e quelle del Rio S’Isca de Arcosu, terra di Sardegna, a due passi dalla pedemontana che collega Cagliari con il Sulcis più profondo. Ad apporre la ceralacca d’ordinanza è Francesco Cirianni, Notaio d’Arezzo, in trasferta a Scandicci. La data è quella del sette aprile del 2021. Da vendere c’è una società da quattro soldi, appena diecimila euro di capitale, con in “pancia” un progetto tutto sardo per piazzare a due passi dall’Oasi del Cervo una distesa di 75.240 pannelli di silicio monocristallino, rigorosamente «Made in China». Vendono le quote frammentate di «PV Ichnosolar srl» quattro società, tutte dislocate tra Castiglion Fiorentino e Arezzo, compra una compagine unica dedicata a Sant’Omobono, il “primate” dei sarti. Prima della “santificazione” del nome societario, però, compare il marchio di fabbrica a stelle e strisce: “Sonnedix”, il braccio solare della JP Morgan in terra sarda. I “Signori” fiorentini che cedono non hanno in mano niente, o quasi, solo un progetto solare per “scalare” un altro pezzo di Sardegna. La “Sonnedix-Sant’Omobono srl”, però, non bada a spese pur di costruire l’ennesima “graticola” fotovoltaica da piazzare tra corsi d’acqua e nuraghi.
Guadagni del 6.000%
Quei diecimila euro di capitale sociale diventano una slot machine a caro prezzo: i soci che vendono incassano in un colpo solo la bellezza di 628.800 euro, ovvero un guadagno del 6.000% rispetto al valore della società. Gli americani sanno quel che comprano, ma impongono una clausola di protezione, seppur marginale: «qualora all'esito della verifica di assoggettabilità predetta sia necessario un procedimento completo di V.I.A. la residuale somma di euro 40.000 sarà corrisposta all'esito positivo della V.I.A.». Alla fin dei conti hanno fatto bene a non pagare subito il prezzo pieno, anche se quello già pagato aveva raggiunto vette insperate per l’estimo agrario di quell’area. Quell’operazione sulle terre agricole, infatti, si è schiantata ieri al Tar Sardegna con la pubblicazione di una sentenza destinata non solo a fare rumore, ma, soprattutto, a turbare i sonni milionari di chi pensava di poter fare e disfare in terra sarda nel nome di Draghi & company.
Cazzotto a JP Morgan
Senza saperlo i Giudici del Tribunale Amministrativo Regionale hanno assestato un cazzotto in pieno volto ai più potenti finanzieri del mondo, quelli americani della JP Morgan. Il progetto, denominato “Macchiareddu”, quasi a voler legare a filo doppio l’area industriale con l’ennesima invasione fotovoltaica in terre agricole, tali per storia e per attualità, agli inizi del 2024 era stato pesantemente falcidiato dal Ministero della Cultura. I due terzi di quei pannelli proposti dagli “Yankee” erano stati ritenuti fuorilegge, capaci di incidere negativamente su corsi d’acqua, beni archeologici e struttura agroforestale esistente. Non se ne sono fatti una ragione, gli americani. Non solo rischiavano di perdere la quota pagata per l’acquisto “a rischio” di quella società, ma correvano il serio pericolo di perdere l’ennesimo “colpo” milionario di incentivi legati al fotovoltaico in terra sarda. Con un ricorso plurimo e reiterato, datato 2024, i finanzieri degli “States" hanno affidato le loro sorti alla premiata compagine legale di “Sticchi Damiani”, gli avvocati con il pallino per le rinnovabili.
Arma a doppio taglio
La tesi d’attacco e di difesa della Sonnedix-JP Morgan, in diritto PV Ichnosolar srl, si è rivelata un’arma a doppio taglio, alla fine letale. In estrema sintesi gli “americani” hanno prima sostenuto che l’area oggetto dell’intervento “solare” ricadesse nella fattispecie del famigerato Decreto Draghi relativamente ai «siti oggetto di bonifica individuati ai sensi del Titolo V, Parte quarta, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152». In pratica, con il richiamo a questa tipologia, espressamente indicata dal Decreto “carnefice” della Sardegna, i legali puntavano a spazzare via qualsiasi ostacolo che si potesse frapporre all’approvazione senza perdite di tempo del progetto “americano”. Una tesi che alla fin dei conti si è rivelata una vera e propria “zappa sui piedi”. Secondo gli avvocati a stelle e strisce «la mera localizzazione dell’impianto in un’area ricompresa in un SIN, (Siti di Interesse Nazionale n.d.r.) unitamente alla circostanza per cui sarebbe stata avviata in relazione all’area in oggetto la procedura di caratterizzazione, sarebbe sufficiente a ritenere l’area localizzata in area idonea» ai sensi del Decreto Draghi. Una trappola letale: con la scusa dell’area compresa nel “SIN” di bonifica del Sulcis pensavano di farla franca con corsi d’acqua e nuraghi, a tal punto da ritenerli del tutto ininfluenti ai fini dell’approvazione da parte dei Ministeri del progetto fotovoltaico da oltre 40 megawatt sui terreni di Uta e dintorni. Gli è andata male. Molto male. Soprintendenze e Ministero della Cultura non solo hanno smontato questa tesi, ma l’hanno letteralmente ribaltata dimostrando che quelle aree non solo non erano mai state bonificate, ma nemmeno sottoposte a caratterizzazione e come tali non potevano essere escluse dagli obblighi di rispettare distanze da fiumi e beni archeologici. A questo si aggiungeva che quelle aree erano sì comprese all’interno del perimetro del Consorzio industriale di Macchiareddu, ma erano palesemente utilizzate da sempre a scopo agricolo e forestale. A vergare la “caduta” del progetto americano è il numero uno del Tar Sardegna, il Presidente Marco Buricelli, con Gabriele Serra, Primo Referendario, e Roberto Montixi, Referendario Estensore. Una sentenza pioniera e miliare, capace di mettere a nudo uno dei punti cruciali del Decreto Draghi. Un provvedimento giudiziario che “boccia” senza appello la pretesa di “prevaricare” su beni archeologici, paesaggistici e agricoli attraverso la definizione “industriale” di un’area, ritenuta dal provvedimento del “banchiere d’Europa” «area idonea» a tutti gli effetti, come tale al di sopra di ogni altro bene o valore.
Pugno di ferro
I Giudici indossano il guanto di velluto per celare il pugno di ferro: «Il Collegio non ritiene, tuttavia, condivisibile tale tesi». I magistrati sono chiari: per ricomprendere a tutti gli effetti quelle aree in un sito “oggetto di bonifica” dovevano essersi verificate tutta una serie di passaggi. Una procedura che i togati hanno richiamato puntualmente: bisognava partire dalla ricostruzione storica delle attività produttive svolte in quel contesto sino all’«Identificazione dei livelli di concentrazione residua accettabili - sui quali impostare gli eventuali interventi di messa in sicurezza e/o di bonifica, che si rendessero successivamente necessari a seguito dell'analisi di rischio-calcolati mediante analisi di rischio eseguita». Sono tranchant i magistrati: non essendo stata compiuta la caratterizzazione del sito, e conseguentemente nemmeno l’eventuale bonifica, decade il presupposto invocato dagli americani per non rispettare i beni archeologici, i vincoli idrogeologici e i valori agricoli e forestali dell’area. Lo scrivono senza mezze frasi: «Tale circostanza induce il Collegio a ritenere che il mero avvio, come nel caso di specie, di una procedura di caratterizzazione ambientale del sito non sia sufficiente a ritenere l’area compresa tra “i siti oggetto di bonifica” ai sensi della lett. b) dell’art. 20, disposizione che, nel definire una tale area idonea “ex lege” senza ulteriori precisazioni, evidentemente presuppone che sia già stata accertata la compromissione dell’area (comprese quella denominata “SIN”) dal punto di vista ambientale».
L’esatto contrario
Insomma, per i legali degli States l’area è «espressamente qualificata come area idonea all’installazione di impianti da fonte rinnovabile», per i Giudici l’esatto contrario. La difesa a “stelle e strisce” mette in campo tutte le armi “segrete” del Decreto Draghi, quasi lo avessero scritto loro. Uno dei cardini della difesa del progetto è ridondante: «il parere del Ministero della Cultura deve essere qualificato come non vincolante e recessivo rispetto al parere positivo espresso dalla Commissione VIA». Sanno perfettamente che quel “parere non vincolante”, prescritto dai “Draghiman & woman”, è sempre stato considerato da tutti i signori del vento e del sole come una manna dal cielo, una sorta di “tritacarte” per i giudizi su archeologia e paesaggio. Lo conoscono a memoria il Decreto “ammazza” beni archeologici e paesaggistici, tanto che nel ricorso appena cestinato dal Tar non smettono di ripetere: la realizzazione del progetto «era sostenuta da un rilevante interesse pubblico; il Ministero della Cultura, al contrario, in nessun passaggio dell’atto impugnato avrebbe operato il necessario bilanciamento tra le conseguenze del provvedimento negativo e la salvaguardia dell’interesse pubblico alla promozione di energia “green” e all’autonomia energetica regionale e statale». Da Banca d’affari più potente del mondo a beffardi “benefattori” della Sardegna e dell’interesse pubblico è un attimo.
Affari privatissimi
Peccato che l’unico interesse in campo sia quello “privatissimo” dei giocatori di Wall Street, alla ricerca di rendite stratosferiche da conquistare sulla testa della Sardegna. Ai signori del dollaro-solare non piace nemmeno la realtà dei luoghi: contestano persino l’evidenza della funzione agroforestale dell’intera area. Sono senza pudore persino quando si tratta di un bene archeologico e lo scrivono senza remore: «l’esistenza di un bene archeologico ad una distanza dall’impianto inferiore rispetto ai 500 metri, a differenza di quanto rilevato dal Ministero della Cultura, non determinerebbe “tout court” l’impossibilità di ritenere l’impianto localizzato in area idonea». La filosofia di fondo degli Usa è esplicita: di nuraghi, di paesaggio, corsi d’acqua e ambiente agroforestale non ci importa niente. Il Tar non è dello stesso avviso: ricorso bocciato. I Giudici sono espliciti: «il parere contrario del Ministero per quella parte di progetto rappresenta l’esigenza di tutelare altrettanti interessi pubblici relativi alla protezione del patrimonio culturale e del paesaggio». Il nuovo sacco americano a Monte Arcosu non passa.