Il corrispondente del Financial Times:«Ecco l'Italia vista da noi inglesi»
«Dio salvi l'Italia e gli italiani». Guy Dinmore, corrispondente del Financial Times per l'Italia, è un cronista che conosce bene il nostro Paese. Ha lavorato in Cina e Kosovo, Ruanda e Iran. Da un giornale che è la bibbia economica dei liberal, continua a fare domande a cui spesso non riceve risposta: «Il vostro premier non si è mai fatto intervistare». Ha seguito Berlusconi nell'ultima campagna elettorale. «Gli ingredienti del suo successo? Soldi, media , furbizia, sinistra in crisi». di GIORGIO PISANOPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Tre anni di permanenza a Roma sono bastati per mettere a fuoco l'Italia e gli italiani. «Società conservatrice la vostra, fatta comunque di gente tollerante. Forse troppo tollerante. Quando c'è lavoro, ma non ne vedo molto in giro, ci date dentro, non siete scansafatiche». Segue anche un difettuccio che gli è capitato di notare abbastanza spesso: «Avete la tendenza a dare la colpa agli altri».
Guy Dinmore, corrispondente del Financial Times (semplicemente Ft per gli addetti ai lavori) non adopera un italiano da accademia ma nei momenti-chiave manda il cervello in pit stop in attesa che gli suggerisca la parola giusta. Per esempio quando gli si chiede cosa pensa l'opinione pubblica britannica del premier Silvio Berlusconi. «How do you say clown?», domanda all'interprete. Pagliaccio, gli dicono. E lui dopo una pettinata con le dita sui capelli biondo-grigi conferma imbarazzato: «Pagliaccio».
Cinquantadue anni, tre figli, gallese, Guy è un cronista della vecchia (preistorica) guardia: non vive incollato al telefono, va per strada, soprattutto fa domande. Domande vere, s'intende. Sta al Ft dal '97. Prima di approdare dalle nostre parti ha lavorato per l'agenzia Reuters a Pechino (da dove è stato espulso), in Kosovo (quando cadevano le bombe sinceramente democratiche del governo di centrosinistra), in Ruanda, in Iran e negli Stati Uniti. Ha vinto il premio Foreign press freedom, che non è esattamente una coppetta di paese.
Durante i giorni caldi del confronto sindacati-Marchionne, ha chiesto alla Fiat di visitare lo stabilimento di Pomigliano d'Arco. «La fabbrica è chiusa», gli hanno risposto. Lui, tra vedere e non vedere, ci è andato lo stesso. E siccome non è un suddito britannico per caso, ha educatamente bussato al cancello d'ingresso: mi fate entrare? È finita che ha fatto la sua intervista al citofono, davanti a un portiere che osservava esterrefatto dalla guardiola. Confessa che diverse volte avrebbe voluto intervistare Silvio Berlusconi ma lo staff «mi ha sempre risposto vediamo. Che è un modo tutto italiano di dire no». Ha tentato di rifarsi durante gli incontri con la stampa estera «ma alle mie domande non ricevo risposta».
Guy non è un estremista, anzi. Il suo giornale è la bibbia economica dei liberal e dunque non dovrebbero esserci problemi. Il guaio, come si diceva prima, è che fa e si pone domande. Dice che farle, e farle sul serio, è il suo mestiere. Anzi suo dovere.
Chiamato dal professor Franco Staffa, presidente dell'associazione Italia-Inghilterra, a tenere una conferenza ( L'Italia vista da un giornalista inglese ), Guy mostra stoffa da vero resistente. Atterrato in tarda mattinata a Cagliari, viene accompagnato in un ristorante di pesce per un pranzo vero, non un brunch veloce veloce e magari in piedi. Subito dopo, senza aver avuto neanche il tempo di passare in albergo, si sacrifica e concede questa intervista mentre manca ormai giusto un'ora all'incontro pubblico.
Due, a questo punto, le ipotesi sulle lunghe pause prima di ogni risposta: Guy Dinmore è un uomo davvero riflessivo oppure hanno esagerato in ristorante.
Le rivelazioni di Wikileaks segnano la morte della diplomazia?
«Non credo ma non c'è dubbio che i diplomatici americani debbano cambiare stile e metodo. I governanti italiani, penso a Gianni Letta che racconta del premier al numero due dell'ambasciata Usa a Roma, dovrebbero fare più attenzione quando parlano con loro. Gli americani sono eccellenti ascoltatori».
In Italia c'è libertà di stampa?
«Certo che c'è libertà di stampa. E ci sono anche gli stessi problemi dei giornalisti di altri Paesi. I quotidiani, parlo di quelli inglesi ma vale anche per gli italiani, stanno perdendo un sacco di copie».
Colpa degli azionisti?
«Le pressioni non mancano, però la verità è principalmente un'altra: i giovani non amano e non leggono la carta stampata. C'è un cambiamento generazionale che sta mutando abitudini e comportamenti».
Vale anche per i tabloid londinesi, giornalismo gossiparo?
«Naturalmente. Rispetto a un passato di tirature milionarie hanno adesso perdite vistose. L'interesse e la curiosità di un tempo per certe questioni non ci sono più. Il Financial Times vende nel Regno Unito 150mila copie. Vorrà dire qualcosa questo, no?»
Tornando alla libertà di stampa?
«In Italia c'è di sicuro anche se i quotidiani sono troppo spesso legati a partiti politici».
E la qualità?
«Buona, direi. Avete giornalisti bravi e coraggiosi. Penso, per fare un nome, a Rosaria Capacchione del Mattino di Napoli. Il problema, semmai, riguarda la leggibilità».
Cioè?
«Quelli che non sono ultra-informati e ultra-aggiornati sulle vicende politiche leggono talvolta con difficoltà certi articoli del Corriere o di Repubblica. Danno troppe cose per scontato. Altre, invece, vengono snobbate».
Per esempio?
«Eravate talmente concentrati sulle anticipazioni di Wikileaks che avete ignorato o quasi una vicenda importantissima: la crisi dell'Eurozona. Sembrava la storia di un altro mondo».
Il giornalismo inglese com'è?
«Abbiamo gli stessi problemi dei colleghi degli altri Paesi. Una differenza però c'è: un giornalista inglese non si sognerebbe mai di riportare accuse contro qualcuno senza un contemporaneo diritto di replica. Noi, insomma, sentiamo tutte le campane. Quando leggo L'Unità o Il Fatto, con tutto il rispetto per queste due testate, mi succede di non trovare botta e risposta».
Da cosa dipende?
«In parte dalle leggi. Le nostre sono molto più severe, in Inghilterra è facilissimo trascinare in tribunale un giornalista».
Qual è il rapporto fra i cronisti e il premier David Cameron?
«Non abito nel Regno Unito da 25 anni e dunque non so in che modo ci si rivolga al nostro capo del governo».
In passato c'era chi chiamava scroccone Tony Blair.
«Francamente non so rispondere a questa domanda».
Come ci vedete?
«Sono due le facce dell'Italia che vedono gli inglesi. La prima è cultura-cibo-cene indimenticabili-vacanza-storia; l'altra è mafia-violenza-criminalità-droga. Quanto alla politica, pensiamo che la vostra sia, come dire?, uno scherzo: come si fa a cambiare governo, come accadeva fino a poco tempo fa, una volta l'anno?»
Ci sono tabù per i giornalisti inglesi?
«C'erano. La Regina era intoccabile. la Regina madre ancora di più».
Il nostro miglior ministro?
«Mah, difficile dirlo. Tremonti non ha fatto male ma non gli viene perdonato, per ragioni morali, lo scudo fiscale. Anche Brunetta ha fatto un buon lavoro. Maroni invece oscilla fra grandi scelte e decisioni terribili come quella contro i rom. Il ministro peggiore? Non c'è: tutto il governo è paralizzato e dunque diventa impossibile dare giudizi».
La guerra in Iraq è stata scatenata da una bufala dei servizi segreti...
«Sì, non c'era una base, un motivo vero e concreto per attaccare l'Iraq».
Però gli inglesi hanno aggredito ugualmente Baghdad.
«Non posso negarlo. I giornalisti del mio Paese non hanno tuttavia nascosto la verità: la guerra in Iraq è stata un disastro. Per noi e per tutto il mondo».
Invasione anglo-americana in Afghanistan: perché le chiamate missioni di pace?
«Perché così si chiamano per convenzione. In Afghanistan noi inglesi ci siamo andati solo per via dell'alleanza con gli Stati Uniti. Oggi diciamo e scriviamo che non c'è una soluzione militare. Il problema è che interferiscono Paesi vicini come Pakistan e India. Per Obama è un vero incubo».
C'è un politico italiano che gode delle simpatie inglesi?
«La verità, purtroppo, è che se prendi cento inglesi e gli chiedi di dirti i nomi di tre politici italiani, non sono in grado di farlo. Conoscono e sanno di Berlusconi, lì si fermano. Per loro l'Italia è Totti, Ancelotti, Zola, Mancini, Capello».
Come si spiegano il successo del nostro capo del governo?
«Carisma, soldi, media, sistema elettorale, debolezza della sinistra che non si è ripresa dalla caduta del Muro di Berlino. Non sono questi gli ingredienti del successo?»
Qualcuno dice che Berlusconi incarna l'italiano medio. È così?
«Un po' è certamente vero. Due anni fa ho sentito Berlusconi dire che tutto il mondo invidiava uno come lui e ho deciso di seguirlo nella campagna elettorale».
Risultato?
«Mi sono accorto che ai comizi c'erano molte donne. Io chiedevo: signora, secondo lei il mondo vi invidia Silvio Berlusconi? E loro: certamente sì, è capace, intelligente, simpatico».
Che conclusione ne ha tratto?
«Circa trenta elettori su cento sono con lui, qualunque cosa accada. Non è una maggioranza assoluta ma certo bisogna farci i conti».
Prodi dice che agli italiani piace parcheggiare in doppia fila.
«Esatto, proprio per questo si identificano con Silvio Berlusconi. Che è considerato, prima di tutto, un uomo furbo».
Può spiegare perché l'Inghilterra conserva la sterlina pur stando nella Ue?
«Detto in parole semplici, lo fa per garantire l'indipendenza della propria politica economica. Avesse l'euro non potrebbe decidere con la stessa libertà».
Ma l'euro ha un futuro?
«Senza dubbio, sì».
Dopo Irlanda, Spagna e Portogallo, il crac travolgerà l'Italia?
«Direi di sì. Ma è un'ipotesi estrema, le cose dovrebbero andare davvero male. Posso fare una previsione? Non succederà».
pisano@unionesarda.it