L’affare è milionario, tutto giocato nel silenzio e nella penombra del grande business dei rifiuti. Un intreccio di appalti e subappalti per una montagna di fanghi fognari incontrollata che, alla fine, volenti o nolenti, rientra tutta nella delicatissima catena alimentare. Dal 2018 sino al 2020, nell’Isola profumata di Sardegna, ai già imponenti quantitativi dichiarati dagli esclusivi gestori sardi della depurazione, si sono aggiunti persino i reflui fognari spediti impunemente nella terra dei Nuraghi dalla lontana Puglia. Migliaia di tonnellate scaricate senza pudore in qualche discarica pronta a tutto, oppure sparsi qua e là, una volta nei terreni della Malvasia qualche altra volta interrati nei campi delle foraggiere o degli uliveti del Campidano. Un vortice discreto, se non fosse per quella puzza nauseabonda che di volta in volta irrompe come uno schiaffo a cielo aperto sui prosceni più illibati dell’Isola. Tar e Consiglio di Stato, Procure e Tribunali, nei mesi scorsi hanno spazzato definitivamente quel traffico continentale di fanghi fognari destinati a “fertilizzare” i campi agricoli dell’antica terra di Sardegna. E’ illegale introdurre nell’Isola rifiuti extraregionali, hanno sancito sentenze ormai senza appello. Il capitolo, però, è tutt’altro che chiuso. A tenerlo aperto sono i residui fognari prodotti dai depuratori sardi, non pochi, secondo i dati che l’ultimo report ufficiale mette a disposizione dalla Regione.

Una valanga

Nel 2019 la produzione di fanghi fognari destinati al riutilizzo agricolo è stata di ben 85.000 tonnellate, che tradotte in sostanza secca sono diventate 18.572. Tutti dati che hanno una premessa: l’attendibilità. Il report della Regione non lo nasconde: «Occorre premettere che agli errori di misurazione eventualmente effettuati dai soggetti interessati, riconducibili a concetti statistici, devono essere aggiunti quelli derivanti dalle possibili disuniformità nelle modalità di misura (tonnellate trasformate in metri cubi o viceversa), nel momento della misura (al momento del prelievo dagli impianti o in fase di essiccazione più o meno avanzata), nelle possibili conversioni (misura effettuata sul fango tal quale e sostanza secca ricavata)». In alcuni casi possono essere meri errori, in altri, però, diventano sistematici e sospetti. Le inchieste penali, dal nord al sud Italia, hanno fatto trapelare metodi e pericoli che si annidano da tempo nella gestione di questa delicatissima partita ambientale, sanitaria e non solo. La realtà che emerge ogni giorno è inquietante: mancano controlli reali, costanti e superpartes, con tanti sotterfugi incombenti. Il rischio è che quei fanghi, sintesi nauseabonde delle fogne dei comuni dell’Isola, finiscano direttamente nelle terre agricole. Le conseguenze sono facilmente immaginabili. In quei reflui, da trasformare teoricamente in “fertilizzante”, c’è un concentrato di rifiuti di ogni genere. L’ultima inchiesta penale sul tema è quella del Tribunale di Brescia su uno spaventoso giro di fanghi bruscamente fermato nel nord Italia. Scrive il Gip Elena Stefana nella sua ordinanza dello scorso luglio: «Nei campioni in uscita dall’azienda e che sono stati sparsi sui terreni, le sostanze inquinanti (fluoruri, solfati, cloruri, nichel, rame, selenio, arsenico, idrocarburi, zinco, fenoli) erano decine, se non centinaia di volte superiori ai parametri di legge».

Pannocchia & coscienza

Agli atti di quell’inchiesta le conseguenze di quei fanghi sparsi nei campi sono tutte in un’intercettazione telefonica di uno degli indagati: «Chissà il bambino che mangia la pannocchia di mais cresciuta sui fanghi…». Parole che inchiodano le coscienze: quello che si scarica nei campi finisce, prima o poi, sul piatto di ognuno. E’ una catena ambientale-sanitaria automatica, che rischia di cancellare la salubrità dei terreni, di alterarla ai fini di produzioni pseudo-intensive minando in modo indelebile la qualità e la sicurezza dei prodotti agroalimentari e persino zootecnici. Ci sono le leggi, è vero, compreso l’ultimo decreto Genova, approvato dopo il crollo del Ponte Morandi. Norme controverse e per molti versi inquietanti, visto che dentro quei fanghi di depurazione potrebbe essere lecito trovare anche sostanze tossiche e cancerogene. A questo si aggiunge una questione dirompente: la mancanza di tracciabilità, di controlli veri e serrati, e non casuali su quei fanghi che finiscono per alterare i terreni e conseguentemente la catena alimentare. Il vortice d’affari è un trituratore di norme e coscienze. Non è un caso che la stragrande maggioranza di quei fanghi finisca proprio nei terreni agricoli. Un vero e proprio fiume in piena che scorre su quattro o più ruote motrici, arriva nei campi attraversando strade impervie e sterrate, solleva il cassone e scarica il cumulo nauseabondo, come se miracolosamente il terreno ricevesse una manna fognaria propiziatrice.

Il triangolo

Per essere più espliciti: Abbanoa, che affida all’esterno attraverso un mega appalto la gestione dei depuratori della Sardegna, vinto da una multinazionale spagnola, paga milioni e milioni per garantirsi lo smaltimento di quei fanghi. Paga e si solleva da ogni genere di onere, da quello civile sino a quello penale. I contratti sono una catena a doppio maglio per lo scaricamento seriale di responsabilità. Nelle disposizioni sottoscritte tra gestore (Abbanoa), appaltatore (società spagnola) e sub appaltatore (monopolista sardo) la parola chiave è “manleva”, ovvero la clausola contrattuale per sollevare dalle responsabilità il soggetto che si libera di quei fanghi. Una materia che scotta, sotto ogni punto di vista. Nel contratto di subappalto per la gestione dei fanghi prodotti dai depuratori di Abbanoa c’è scritto: «il subappaltatore si impegna sin d’ora a manlevare e tenere indenne l’appaltatore da ogni danno, spesa, onere, costo, sanzione e/o conseguenza pregiudizievole di qualsivoglia natura che dovesse derivare da qualsiasi ricorso o azione promossa in qualsivoglia sede, anche penale, contro l’appaltatore da soggetti terzi, per eventuali danni all’ambiente e/o alla salute». Come dire: se arriva l’Arpas, il Noe, o la Forestale non cercateci.

Manleva

La responsabilità di quei fanghi passa tutta al subappaltatore, colui che in base al contratto milionario, sottoscritto il 31 marzo del 2021, deve occuparsi del riutilizzo o dello smaltimento di quel materiale, il più delle volte palabile, con la consistenza della plastilina di un tempo. La normativa è un buco nero e i controlli sono un profondo rosso. Sulla gestione sarda di questi materiali scaricati nel ciclo ambientale dei terreni agricoli vige il rigore del silenzio. I dati, però, sono una fotografia troppo nitida per non sollevare il sipario su quanto sta avvenendo e soprattutto su quanto non si sta facendo per tenere sotto controllo questo fenomeno sempre più invasivo nelle campagne sarde. Tutti sono o si dichiarano all’oscuro di quanto “fertilizzante” fognario sta finendo nella rigogliosa e rinomata agricoltura sarda. Un silenzio che non depone per il meglio. In ballo c’è un bene indisponibile: la qualità della natura, l’identità geologica dei terreni, il rispetto delle specificità organolettiche dell’agricoltura sarda. Mettere a rischio questo immenso patrimonio, con il solo fine di far guadagnare milioni a piene mani dall’affare dei fanghi fognari, significa compiere un azzardo che può costare infinitamente tanto alla Sardegna, sia sul piano d’immagine, sia per quanto riguarda la salute pubblica. In molti “celebrano” lo spandimento di questi fanghi in agricoltura come un fulgido esempio di “economia circolare” dove i rifiuti diventano il toccasana per terreni e agricoltura. In realtà, secondo molti studi, le terre agricole non hanno tratto benefici sul piano della fertilità, mentre è cresciuto, drammaticamente, il livello di inquinamento dei suoli.

Il quartier generale

L’utilizzo dei fanghi di depurazione è in breve tempo diventato un business sconfinato. In Sardegna lo scenario è scandito da numeri che segnano un fenomeno sempre in crescita, con un dato eloquente: conviene sempre di più spandere in agricoltura i fanghi fognari, meglio se a due passi dall’impianto monopolista dislocato a Sanluri, in diretta connessione proprio con la strada che collega la Carlo Felice con il Medio Campidano. Dunque, il principio è edonistico: massimo utile con il minimo sforzo. Il massimo utile è un guadagno a sei zeri, milioni di euro che Abbanoa paga agli spagnoli che, a loro volta, girano al monopolista sardo. Il minimo sforzo è quello di convincere gli agricoltori dirimpettai dell’impianto di Sanluri a “nobilitare” i propri terreni con quei “preziosi” fanghi fognari diventati di punto in bianco “miracolosi”, soprattutto per i conti correnti bancari di chi gestisce questa mole imponente di reflui trasformati in oro. Nel 2019 i fanghi fognari riutilizzati in agricoltura sono diventati ben il 74% di quelli prodotti in Sardegna. In quest’ultimo anno esaminato dall’assessorato dell’Ambiente, però, sono cresciuti a dismisura anche i fanghi posti a riserva, ovvero quelli con problematiche ancora più invasive, e utilizzati in agricoltura solo in un secondo momento. In questo caso il dato complessivo di utilizzo dei fanghi sale all’81% di quelli prodotti. L’incremento dello spandimento dei fanghi nei terreni agricoli rispetto al 2018 è rilevantissimo: 2.230 tonnellate in più, pari al 19,23% di incremento in un anno. Come se non bastassero quelli prodotti in casa, negli ultimi dodici mesi censiti, quelli del 2019, si è continuato a registrare, prima del blocco giudiziario, l’arrivo nell’Isola di ben 18.500 tonnellate di fanghi fognari spediti dall’Acquedotto Pugliese.

Crescono i fanghi

La mappa dello spandimento dei fanghi sardi nelle campagne vede il Sud Sardegna in testa, con un rilevantissimo aumento di fanghi sparsi in quelle terre agricole. Nel 2019 la provincia del Sud Sardegna risultava ancora al primo posto per quantità di fanghi riutilizzate in agricoltura, passando dal 39% al 52% del totale rispetto all’anno precedente. La provincia di Sassari raggiunge il 30,75%, l’area metropolitana di Cagliari riutilizza il 9,31%, la provincia di Oristano il 7,94% e quella di Nuoro appena lo 0,10%. I dati in nostro possesso parlano di 29 aziende agricole coinvolte nell’operazione, otto in meno rispetto all’anno precedente, segno di un ripensamento evidente su queste pratiche. I comuni interessati da questo spandimento agricolo-fognario calano rispetto all’anno precedente, passando da 19 a 17. L’estensione dei terreni che hanno ricevuto cotanto scarto fognario è infinita, come 2.600 campi di calcio. Duemila e seicento ettari di terreni agricoli che hanno “beneficiato” di questo “fertilizzante” nauseabondo. Dei controlli effettuati, delle analisi fatte da soggetti super partes, però, non c’è pubblica traccia. Il controllo è, di fatto, affidato esclusivamente proprio a coloro che gestiscono in solitudine il business dei fanghi. Ci sono, poi, i Comuni che a volte subiscono e altre reagiscono, con tanto di denunce. La mappa del grande affare dei fanghi fognari in Sardegna, però, è ancora tutta da scrivere. Comune per comune, appalti, affari e milioni a gogò.

(1.continua)

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