Figli dell’anima ribelle, eredi della grande scuola “nuragica” del Sardus Pater, il padre dell’immensa Civiltà del Popolo Sardo, Giovanni Lilliu. Se ci sono due testimoni protagonisti che incarnano per studi, simbiosi e carattere il grande “maestro” questi sono Giovanni Ugas e Momo Zucca, i suoi allievi prediletti. Una storia parallela di frequentazioni, di visioni illuminate, di analisi comparate tra l’entroterra nuragico e il ruolo dei sardi antichi nel Mediterraneo più esteso. Dai Giganti di Mont’e Prama alle vestigia della grande reggia di Barumini, loro ci sono sempre: durante e dopo l’avvento di Giovanni Lilliu nella storia archeologica sarda. Posati e schietti, da sempre allergici alle imposizioni di Roma, difensori estremi dell’identità del Popolo Sardo, docenti universitari, con un trascorso autorevole nelle stanze delle Soprintendenze di Stato.

Dichiarazione di guerra

Quando “imbracciano” la penna sanno come e dove puntarla. Le parole sono palle incatenate, come se non potessero assistere un giorno di più al grande scempio che minaccia la grande Civiltà Nuragica. Gli hanno toccato un nervo scoperto: la più grande opera megalitica mai scavata dal loro maestro, quella monumentale Reggia nuragica di Barumini divenuta la prima bandiera sarda del Patrimonio dell’Umanità. La sentenza del Tar Sardegna, costretto a prendere atto delle negligenze di Stato sullo sfregio di un insediamento industriale di pannelli agrivoltaici tra il grande nuraghe, il castello di Las Plassas e il nuraghe di Turriga, è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Un insediamento di silicio cinese pronto a stagliarsi in quel paesaggio solo perché lo Stato italiano si è dimenticato di riconoscere l’interesse archeologico del nuraghe Turriga, posizionato da 3.500 anni ad appena 236 metri da quello scempio appena autorizzato di 24 ettari di specchi e acciaio da conficcare nelle terre agricole più fertili della Marmilla. La rabbia esonda, come un fiume in piena: «In Sardegna sono noti e documentati migliaia di beni archeologici sardi (nuraghi, menhir, tombe di giganti, ipogei sepolcrali prenuragici detti domus de janas, necropoli e insediamenti di età storica) non soggetti a vincolo di tutela ministeriale, ma, ove insistano in proprietà privata, per la Repubblica italiana non esistono, come se le comunità non facessero parte della stessa Repubblica e non ne fossero testimoni! Così, migliaia di domus de janas e nuraghi non possono essere tutelati e valorizzati solo perché la Repubblica italiana non li ha ancora riconosciuti formalmente attraverso la dichiarazione di interesse culturale».Un’assenza di tutela che fa gridare al sacrilegio: «Queste testimonianze del passato sono bimbe senza madre, res nullius alla mercè di tutti, eppure hanno le stesse caratteristiche dei beni archeologici sottoposti a tutela per legge: l’antichità, l’essere monumenti architettonici e storici, strumenti identitari di un luogo, parte del paesaggio e appartengono non solo al privato nel cui terreno esso insiste, ma a tutta la comunità, come recita la Convenzione di Faro».

Lo Stato smemorato

L’accusa di Ugas e Zucca è circostanziata: «Il Ministero dei Beni Culturali, tramite il Segretariato regionale, non è in grado, per propria deficienza (ataviche mancanze di personale idoneo e risorse adeguate delle Soprintendenze), di emettere i numerosissimi vincoli di tutela dei beni culturali necessari in una regione come la Sardegna caratterizzata da una delle più elevate incidenze di beni archeologici (anche monumentali) dell’intero Mediterraneo. Lo Stato fa gravare sull’Isola questa sua grave manchevolezza non riconoscendo migliaia di beni archeologici già noti alla comunità». Una mancata apposizione di tutela archeologica da parte dello Stato che può generare una devastazione senza precedenti: «il Pnrr così come è impostato si prefigura non come un sostegno economico per la Sardegna, ma come una nuova forma di servitù statale, con tanti Sardi espropriati delle loro terre».Il j’accuse è duro come non mai: «Questi impianti avranno un impatto non sopportabile per le numerosissime aree archeologiche e di interesse naturalistico e paesaggistico, preservate nel tempo dalle comunità sarde che non potranno essere più fruite dalla comunità, oltre che, in un contesto più in generale, per l’intera economia delle vaste zone interessate». A speculatori e sostenitori nei Palazzi della politica non glielo mandano a dire: «È evidente che questo piano del Pnrr appare di gran lunga peggiore delle ben note cattedrali nel deserto, che l’Isola ha dovuto sopportare per vari decenni con una strategia economica industriale avulsa dal territorio».

Ribellione morale

Quella dei due eredi di Giovanni Lilliu è una ribellione morale e identitaria: «Non possiamo non rilevare che anziché sostenere le attività economiche in grave crisi, basilari e rispettose dell’ambiente, l’agricoltura, la pastorizia, l’artigianato e il commercio, oltre che i collegamenti aerei, marittimi e terrestri, imprescindibili supporti per lo sviluppo dell’economia dell’isola, lo Stato tende a realizzare una politica energetica nefasta e del tutto fuori luogo, sostanzialmente una nuova, subdola servitù, oltre a quelle militari».La strada che tracciano i due docenti universitari è senza riserve: «si impone l’esigenza di ridurre il numero, l’estensione e la potenza di tali impianti in congruità con la situazione economica e culturale dell’Isola, e dunque per eliminare con decisione il Tyrrhenian Link, vale a dire il supporto fondamentale di tale piano energetico enormemente sovradimensionato e alieno».I quesiti che sollevano i ricercatori sono una constatazione amara: «Quale miglioramento delle condizioni di vita, può derivare dal Pnrr se i beneficiari delle opere che si intende realizzare in Sardegna, non sono i suoi abitanti, ma soggetti esterni? Quale tutela dell’identità dell’Isola, se tanti suoi beni culturali, i suoi valori naturalistici e paesaggistici verranno resi inutilizzabili per decenni da tale piano?».Nel "Manifesto” archeologico per la difesa della Sardegna dall’assalto speculativo, eolico e fotovoltaico, c’è anche il richiamo a progetti che potrebbero salvaguardare una volta per tutte quest’immenso patrimonio: «I finanziamenti del Pnrr avrebbero potuto essere utilizzati in modo più consono per valorizzare i beni identitari dell’Isola, in primo luogo per porre termine alla grave carenza delle Soprintendenze sarde nell’ambito vincolistico». Per Giovanni Ugas e Momo Zucca «Errare humanum est, perseverare diabolicum»: «Lo Stato e la Regione Sarda dovrebbero correggere i propri errori riconsiderando la reale situazione economica, culturale e paesaggistica dell’isola. Lo Stato fece un grave errore portando il suo esercito nella regione di Pratobello a Orgosolo e ritornò sui suoi passi: adesso deve avere il coraggio e il buon senso di fare altrettanto. I Sardi non possono accettare una nuova politica delle cattedrali nel deserto, in forme anche peggiori. La bellezza della nostra isola non è data solo dalle sue coste, ammirate dai vacanzieri estivi, ma anche e soprattutto dalla straordinaria varietà morfologica del suo territorio interno e dai suoi beni archeologici e paesaggistici; si tratta di un valore identitario ed economico inestimabile e irrinunciabile per i Sardi e nessuna azione sacrilega deve attentare ad essa, tanto meno da parte di chi ci governa».

Reato penale

Ultimo richiamo, questa volta anche penale: «Gli organi della Repubblica italiana non possono autorizzare interventi che comportino la fattispecie dell’art. 733 del Codice penale: «Chiunque distrugge, deteriora o comunque danneggia un monumento o un'altra cosa propria di cui gli sia noto il rilevante pregio, è punito, se dal fatto deriva un nocumento al patrimonio archeologico, storico, o artistico nazionale, con l’arresto». Il messaggio è forte, chiaro e senza appello: chi distrugge la Sardegna deve essere perseguito, anche penalmente.

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