Una foto, una profezia. Alle spalle Cala d’Oliva, nell’eremo intonso dell’Isola cayenna, quella dell’Asinara. Lui, il gigante, braccia spalancate per contenere l’abbraccio di due simboli eterni della lotta alla mafia. Foto ingiallita: Claudio Lo Curto, al centro, tra Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lui, il giudice gentiluomo, le due isole, la Sardegna e la Sicilia, le conosceva come pochi. Ne aveva studiato l’essenza profonda, ne conosceva usanze e regole. Dall’Ogliastra alla Procura di Sassari, passando per i grandi processi di mafia nella sua Sicilia.

Sardo-siculo

A Lanusei sbarcò alle prime armi, sino a diventare procuratore generale di quel Tribunale ai confini del mondo. Dopo l'Ogliastra il ritorno nella terra di mafia. Dossier di sangue, dall'omicidio del magistrato Rocco Chinnici a quell'autobomba per il giudice Carlo Palermo. L’ennesima strage di mafia. Non ha vissuto al sicuro nemmeno lui. Con una "500" carica di tritolo, piazzata davanti al suo tribunale di Caltanisetta, ci avevano provato per ben due volte a farlo saltare per aria. Al confino dell’Asinara arriva anche lui nel 1985. C’è da preparare il maxi processo. Quattrocento imputati, centinaia di omicidi, stragi, una rete capillare di affari e criminalità organizzata che supera i continenti, quasi una rete universale da scardinare. Lui è lì, in quel lembo esclusivo e vietato di una terra incontaminata e affascinante, insieme a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

La cayenna dell’Asinara

Del resto l’Asinara era nell’immaginario di Stato quell’isola minuta e inviolabile dove segregare allo stesso tempo i “capi dei capi” e anche i numeri uno della lotta alla mafia. I primi isolati per davvero e loro, i magistrati del pool antimafia, costretti, per protezione e sicurezza, a stargli a ridosso. Gli uni in attesa della condanna, gli altri intenti a circoscrivere reati e sentenze. Un'isola-carcere, asinelli bianchi, macchia illibata di lentischi e ginepri, tutto sotto controllo. Un vero e proprio paradiso terrestre davanti alla perla della Pelosa, la spiaggia di Stintino. Claudio Lo Curto mai avrebbe potuto, nemmeno lontanamente, pensare che prima o poi quelle storie di mafia si sarebbero potute incrociare con la terra incontaminata dell’Isola di Sardegna.

Mantra fallito

Del resto lo dicevano tutti: la mafia in Sardegna non può attecchire. In alcuni casi quelle certezze diventavano slogan, gratuiti il più delle volte. Un mantra, quasi un rito propiziatorio per allontanare lo spettro. Tutto sino a quando nei palazzi di Roma qualcuno non ha deciso di scambiare l’Asinara con la Sardegna. Il calcolo è stato spietato e spregiudicato: chiudiamo l’Isola bunker e ne apriamo una molto più grande, quella della Sardegna, facendone un carcere diffuso per capimafia. Confondendo, di fatto, un’area insulare, come indica “preferibilmente” la norma, con una regione insulare. Insomma negli uffici di Stato si sono precostituiti un’interpretazione tanto stolta quanto dissennata: le carceri per i capimafia le facciamo in Sardegna.

Affare carceri

C’erano gli affari dei terreni da acquistare, gli appalti da affidare. C’era, soprattutto, il silenzio di molti rispetto a quella sigla maledetta che introduceva per la prima volta in Sardegna il codice dei capimafia: 41 bis, ovvero il carcere duro, quello riservato a Riina, Provenzano, Cutolo, Madonia, Bagarella. Quelli che dovevano essere isolati per davvero vista la capacità di guidare clan e cosche anche dall’interno di un carcere. Dunque, servivano, nella logica detentiva più vetusta, isolotti isolati, disabitati, vietati ad ogni contatto.

La Sardegna non è Pianosa

La stoltezza di Stato, invece, in un attimo, con un colpo di mano con molti complici, ha trasformato la Sardegna, tutta, da nord a sud in un’Isola-penitenziario, come se una terra di un milione e mezzo di abitanti fosse Pianosa o Gorgona. In ogni modo si è cercato di fermare quella scelta scellerata, ma niente ha potuto dinanzi a chi pensava di risolvere il tema del carcere duro spedendo in Sardegna un terzo dei capimafia, dai 41 bis ai detenuti destinati all’Alta Sicurezza. Claudio Lo Curto quei personaggi destinati a sbarcare nell’Isola li conosceva come pochi altri. Non esitò, nonostante l’imposizione del silenzio e la coercizione di Stato, a denunciare, “apertis verbis”, con competenza e autorevolezza, il pericolo nefasto che si stava prefigurando con l’arrivo dei 41 bis in Sardegna.

Profezia nefasta

Parole di fuoco, quasi una profezia, se non fosse stata, già allora, un’analisi seria e compiuta. Poco prima della sua morte, nel 2017, Claudio Lo Curto, centellinò le parole: «Con i 41 bis arriveranno i parenti, anche cinque o sei, e poi altre persone, che saranno sempre diverse. Arriveranno dieci o quindici giorni prima e se ne andranno anche dieci giorni dopo. Il tempo necessario per monitorare il terreno e allacciare amicizie, contatti. Si faranno conoscere, ricicleranno denaro, concederanno prestiti a tassi da usura, e magari, in seguito all'impossibilità di pagamento del creditore, rileveranno l'azienda».

Pizzini sfrontati

Profezia tanto inquietante quanto lungimirante: «Questi capimafia avranno la necessità di reperire appartamenti a due passi dal carcere. L'obiettivo sarà duplice, interloquire con i capi dei capi e tradurre i messaggi in azioni, compresa l'occupazione di nuovi territori. Ricevere pizzini dai boss dietro le sbarre, scorgendo con un solo gesto, con una mimica facciale incodificabile, messaggi che in pochi o nessuno potrà tradurre». L’uomo che aveva condiviso la lotta alla mafia con Falcone e Borsellino sapeva di cosa parlava: «In Sardegna - spiegava già nel 2015 - si assisterà ad un fenomeno per molti versi simile a quello emerso all'epoca dei soggiorni obbligati, con l'invio in terre illibate di esponenti di primo piano della criminalità organizzata. Far scontare le pene lontani dal territorio di riferimento è un errore madornale».

L’allarme rosso

Alla vigilia del nuovo blitz di Stato per spedire in Sardegna, nel carcere di Cagliari-Uta, altri 92 boss di primo piano, quella previsione drammatica, avanzata da un magistrato antimafia, nel silenzio generale delle istituzioni, assume oggi la forma di un allarme serio. Lo mette nero su bianco la Direzione Investigativa Antimafia. Non un caso la relazione semestrale dell’organismo del Ministero dell’Interno, redatta subito dopo l’avvento del Covid, è scandita con parole chiare e senza mezze misure, tutte rivolte al caso Sardegna: «Appare necessario un costante monitoraggio volto ad impedire il rischio di infiltrazioni nel tessuto socio-economico oltre alle attività preventive e repressive volte a contrastare gli altri traffici illeciti. Un interesse ad intraprendere queste attività criminali potrebbe essere manifestato dai nuclei familiari dei detenuti mafiosi ristretti presso gli Istituti penitenziari dell’isola, che si avvicinano ai loro congiunti per evitare il c.d. “pendolarismo per ragioni di colloqui».

Lo sbarco dei parenti

A preoccupare gli investigatori non sono coloro che occupano le celle di massima sicurezza, ma il rapporto invasivo e strutturale con quei “familiari-adepti” che si riversano a due passi dai luoghi dei potenziali colloqui. In sostanza l’occasione per stare vicini agli “uomini d’onore”, secondo il codice più violento, unisce l’utile al “diletto” di espandere il raggio d’azione e di potere, da nuovi mercati alla manovalanza a basso costo, conseguenza diretta della crisi economica. Gli uomini della Dia non parlano in linea teorica. Quando mettono nero su bianco sanno già quello che si è verificato intorno al carcere di Bancali, a Sassari. Sanno perfettamente il grado di penetrazione nell’area oristanese, dove, ormai, il carcere di Massama, nella periferia agricola di Oristano, è monopolizzato da camorra e ‘ndrangheta, con centinaia di esponenti dei più pericolosi clan. Il monitoraggio è delicato anche in Gallura. Il carcere di Nuchis, alle pendici di Tempio, è teatro di continui contatti con il territorio, con segnalazioni sempre più allarmanti su trasferimenti in pianta stabile del codazzo mafioso al seguito dei boss in carcere. Non basta, però. Tra i documenti spunta anche chi progetta di trasformare la Sardegna nella nuova base operativa della criminalità organizzata.

(2.continua)

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