Se quando ti qualifichi ai campionati italiani pesi 60 chili il giorno della gara non puoi averne quattro in più. E allora: via con i digiuni, le saune, gli allenamenti. E se non basta? "Ho preso alcune buste di plastica, quelle grandi e nere dell'immondizia, e ho corso un'ora, forse di più, boh, non mi ricordo". Era il 1981, Paolo Carboni aveva 25 anni ed era la punta di diamante del judo sardo. "Sono arrivato quinto". Chapeau. E poi? "Finita la gara mi sono seduto al ristorante e ho mangiato cinque piatti di pasta". Quanti?!? "Neanche il cameriere ci voleva credere, tornava al tavolo e mi chiedeva: 'cosa prende per secondo?' Pasta ai quattro formaggi". Perché sul tatami si consumano tante calorie. "Ho cominciato da bambino, avevo sette anni". Con il padre, la madre e il fratellino vivevano a Sassari: Paolo frequentava la palestra vicino al campo della Torres. "Ricordo il primo giorno come fosse oggi: l'odore nuovo e il timore forte, perché seppure sia un'arte nobile prevede il confronto corpo a corpo". Lo aveva scelto perché lo praticavano gli amichetti: "Mi è piaciuto subito". Per prima cosa ha imparato a cadere: "Per evitare s'achitata ci si butta lateralmente su tutto il corpo, così si attutisce il colpo". Dopo cinque mesi era già in gara. "A Olbia, ho vinto".

IL DEBUTTO - Tornato con la famiglia a Cagliari aveva frequentato la palestra della Casa dello studente di via Trentino con il maestro Leonardo Siatzu, per poco tempo. Però: "Al Pacinotti avevo visto un volantino che pubblicizzava l'apertura in via Giardini della Ikioi Judo del maestro Piero Corona, sesto dan". Si era presentato di gran carriera. "Non c'era neanche il tatami, lo stavano preparando. Mi sono iscritto insieme a Enrico Guttuso, Marco Buccellato e un altro ragazzino". Il quartetto si allenava tre volte alla settimana, dalle otto alle dieci di sera. "Ginnastica, tecnica e movimento". Dopo neanche un anno, nel 1973, il debutto. Aveva 17 anni. "Al Palazzetto dello sport c'era moltissima gente". Medaglia di bronzo. A quel punto ha iniziato con le gare propedeutiche ai campionati nazionali. "La prima volta a Perugia è stato oro".

GLI INFORTUNI - Non ha mai capito di essere un talento: "Ho vinto molto, ma ho preso tanti di quei colpi". Si rischia anche sul tatami, quindi. "Sono finito in ospedale diverse volte, dipende da come si cade o come si tira l'avversario". Lussazioni, fratture. "Ma si continuava la gara". Una volta si è fatto male a una mano, gli hanno spruzzato lo spray di anestesolo e vai. "Mi è rimasto il mignolo sinistro storto". Un trofeo. Conquistato in tempi poveri, sotto tutti i punti di vista. "Non c'erano soldi, per questo partivo da solo, qualche volta con Carlo Bistrussu, morto sotto i ferri a sedici anni: ci accompagnava il padre". In nave, ovvio. "Con la Tirrenia fino a Civitavecchia e poi in treno". E meno male che la gran parte delle gare si faceva a Roma. "Ma è capitato di andare anche a Treviso, Milano, Genova, Firenze, Napoli. Dormivamo in pensione e mangiavano quello che capitava, a volte anche solo due uova o pizza". Quando è stato convocato per i Campionati universitari è cambiato il film: "Aereo, albergo, ristorante. Un lusso". E la gara? "Mi sono strappato il quadricipite". Vabbé. Eppure si era allenato duro, dalle sei alle dieci di sera tutti i giorni, e anche la mattina.

IL RITIRO - Il risultato più prestigioso è stato il quinto posto agli assoluti di Napoli. "Ho perso il bronzo stupidamente, ero stanco dopo otto combattimenti". Aveva 21 anni. Studiava Scienze politiche, dopo poco tempo si è pure sposato e ha smesso. "Purtroppo". Che significa? "Quando ho cominciato a lavorare come informatore scientifico ho perso la costanza negli allenamenti, così mi facevo spesso male e salivo di peso. E non mi piaceva perdere con qualcuno che fino a pochi mesi prima avrei buttato a terra". Allora ha detto basta: chi ha fatto agonismo non sa riciclarsi nello sport amatoriale. "Ho dato vita a una società di apparecchiature elettromedicali". E sono nati due figli. Maschi. "Hanno fatto judo ma poi Riccardo ha preferito il calcio, Gianluca invece li ha provati tutti, ogni volta era lo sport della sua vita e poi cambiava".

LE SCONFITTE - La moglie no, niente tatami né cinture colorate: "Veniva a vedere le mie gare". Dove in un attimo dall'altare si finisce nella polvere. "Nel tennis difficilmente il numero uno viene battuto dal numero venti, qui invece può succedere". Sport molto tecnico, sfrutta la forza dell'avversario: "Se uno mi tira glielo faccio fare e poi con una gamba lo mando giù. Lo stesso se mi spinge". L'insegnamento del judo resta per sempre. "Il rispetto per l'altro, innanzitutto. E poi si impara che siamo tutti uguali, il ceto sociale non ha alcun rilievo, conta solo la cintura". E nere ai suoi tempi ce n'erano poche. "Io l'ho presa non con gli esami ma in campo, nelle competizioni nazionali". Così oggi conserva un'arma di difesa efficace. "No, no: io sono una persona mite, nelle liti ha il sopravvento chi parte per primo e non sono certo io quel tipo di persona, sono molto calmo. Certo, se qualcuno mi aggredisce e riesco a schivare il colpo dopo è sicuro che nel corpo a corpo lo metto giù".

IN FORMA - A 63 anni si tiene in forma con la camminata veloce. "Esco da casa a a piedi e vado al parco di Terramaini". Può bastare. A patto che a tavola... Domenica scorsa, per esempio, era Pasqua: quanti piatti di pasta? "Neanche uno". Ma dai. "Giuro, ero da mio figlio in Spagna e lì c'è tutto tranne la pasta". Chissà che pena. "Sì, ma appena tornato a Cagliari mi sono rifatto". Gli occhi dallo sguardo mobilissimo brillano: non saranno stati i cinque piatti di Genova ma... Insomma, qualcosa del genere.

Maria Francesca Chiappe
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