È l'Italia delle pietre a vista e delle finestre feritoia, delle porte basse, centinate e non, degli antichi lampioni con i piatti smaltati di bianco e dei fili elettrici molli lungo i muri. Le strade lunghe e strette, e i gradini che sfociano su una casa col tetto di tegole. Intorno muri scrostati e gronde a mezz'aria.

È l'Italia dei lastricati e dei sanpietrini, coperti malamente da un manto d'asfalto, e degli archi e ponticelli sospesi su qualche nota di colore: di vasi e di fiori. Con le chiese magnifiche che punteggiano il territorio. È l'Italia centrale dei noccioleti e dei cacciatori, delle vetrine di prosciutti accanto alla testa imbalsamata di un cinghiale.

Da lontano il colpo d'occhio d'effetto e la foto sul gruppo di case - legate in un abbraccio color legno spento - e sulle finestre che, timide, occhieggiano da pareti prive di balconi. Sopra, l'immancabile campanile con l'immutabile orologio a segnare un tempo ormai concluso. E zampilli di faggi intorno, e di cerri, e dell'imprescindibile fico. Laggiù lo squarcio rosa di una casa solitaria e più in fondo un porticato.

È anche l'Italia degli appartamenti sul corso principale, ristrutturati e in vendita, ma meglio sarebbe dire in svendita, a 38mila e 24mila e fino a 15mila euro, una manciata di soldi pur che sia, per scappare da lì, seppure vicini a straordinari tesori nel Paese dell'arte, e a laghi famosi.

In Sardegna il paesaggio cambia per il verde perenne dei lecci e l'indicibile azzurro del mare, di frequente battuto dal maestrale impertinente, e i nuraghi e le torri che, sullo sfondo, raccontano di un altro epos.

L'architettura è differente e gli acciottolati testimoniano di altre vicende, ma la fine della storia è spesso la stessa.

La sirena della grande città è un pifferaio magico che tanti richiama e tutti affoga nel suo imbuto metropolitano, privi, finalmente? d'identità in un Paese che del sovranismo ha fatto una delle bandiere preferite, e del municipalismo teorico. I tempi paiono davvero finiti, del lungo Medioevo e Rinascimento e di un passato più lontano, degli spazi, in primis, e delle antiche rivalità fra senesi e fiorentini di boccacciana memoria che rinascono anche nei vari centri peninsulari, in occasione delle feste e sagre e palii o nelle sfilate dei costumi, nei balli e nei cori.

Non di spopolamento soltanto, ma, prima ancora e meglio, di spaesamento si potrebbe però parlare, parola che tanto vuol dire ma che, innanzitutto, segnala il liberarsi dal-del paese e borgo. Perché non è, non può essere, solo la crisi demografica ed economica la causa della fuga inarrestabile, piuttosto l'esito del confronto col vasto mondo, dell'altro più attrattivo, con il fascino sempiterno del diverso, del viaggio che sempre più allontana lungo la strada del non ritorno.

Da cui non si vuole comunque uscire perdenti. Già nell'Heidegger di “Essere e Tempo” lo spaesamento (Unheimlichkeit) viene descritto come un-non-sentirsi-a-casa-propria. Sentirsi spaesati, dunque, questa la condizione, quando non si riconosce più la casa come propria, in senso letterale e metaforico, o un luogo (fisico, emotivo) come heimisch, familiare. D'altronde, dalla ricerca dell'oltre difficilmente si torna indietro.

L'anello che non tiene è proprio la grande distanza dal mondo di ieri e dalla sua topografia, con la mancanza di spazi dedicati allo svago e di progetti culturali non rinverditi e declinati dai giovani, ormai lontani. Giovani senza lavoro e senza futuro nel proprio paese e perciò stesso esclusi o impediti nella via del rimpatrio, se mai lo volessero. Uno iato per certi versi irrecuperabile.

Laddove i piccoli centri troveranno la capacità di rivitalizzarsi, in quel momento, e solo allora, proveranno a fermare un fenomeno all'apparenza inarrestabile. Servirà a quest'epoca un nuovo Virgilio e altre “Georgiche” che cantino l'opportunità del ritorno alla terra, al paese, al borgo? Sarebbero forse necessari un nuovo Principe illuminato, un altro Augusto, una nuova politica, scelte innovative.

ANGELA GUISO

CRITICA LETTERARIA
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