Chi mi conosce sa che che non è mia abitudine parlare pubblicamente delle mie vicende personali. Però…»

Però, signor ministro?

«Oggi devo fare una eccezione».

Mi fa piacere, era quello che speravo.

«In queste ore ho vissuto una grandissima emozione per la morte di Gigi Riva. Una emozione doppia: se ha tempo le spiego perché».

Lei non ha partecipato ai funerali di Bonaria.

«No, perché il ministro dell’Interno ha una agenda complicata».

Lo sappiamo.

«Il preavviso della cerimonia funebre è stato così breve che mi era impossibile volare a Cagliari giovedì scorso. Ma mi creda: ho seguito tutto, mi sono commosso a distanza per l’intervento bellissimo di Nicola Riva, per le tante testimonianze - note e non - che anche in queste ore continuano ad arrivare».

Come figura istituzionale cosa la colpisce?

«La potenza del messaggio pubblico che Riva lascia a questo paese, la forza di un esempio che arriva a tutti gli italiani. Un patrimonio che non bisogna disperdere».

E come uomo?

«Mi sono ricordato di un bambino degli anni Sessanta, cresciuto in una provincia del sud, che non era mai stato né a Cagliari né in Sardegna, che non aveva parenti sardi, eppure tifava Cagliari nella sfida per lo scudetto e che passava le giornata a ritagliare le fotografie di Riva».

Un piccolo tifoso.

«Un bambino che aveva la sua cameretta tutta tappezzata di immagini, di bandiere, scudetti e che…»

Cosa? (Ride).

«Che litigava con i suoi compagni di classe delle elementari».

Perché?

«Perché quei bambini tifavano, quasi tutti, per i tre grandi squadroni del nord: Juve, Inter e Milan. La città di provincia era Avellino. E quel bambino testardo lei lo conosce molto bene. (Sospiro, sorriso). Molto. Ero io».

Mai avrei pensato di intervistare il Ministro dell’Interno del nostro Paese - uno dei più seriosi, istituzionali e compassati che si ricordi, in pubblico - sulla vita e sulle opere di Gigi Riva. Eppure quella di Matteo Piantedosi - campano, nato il 20 aprile del 1963 - è la storia comune di una generazione di ragazzi e di bambini, nati fra il cinquanta e il sessanta, cresciuti con il mito del numero undici: Piantedosi è un prototipo perfetto di tanti che sono volati in Sardegna per salutare il campione: gli ex bambini - oggi uomini - della “generazione Giggirriva”.

Torniamo con la memoria ad Avellino. Che famiglia era la sua?

«Mio padre direttore didattico. Mia madre maestra elementare. Io ero nato a Napoli, la mia famiglia veniva da un paesino della provincia, Pietrastornina, ma noi abitavamo in città».

Nessun legame con la Sardegna?

«Nessuno. Mio padre era uno Juventino, alcuni zii erano del Napoli, il nostro amato Avellino era allora nei gironi danteschi delle serie inferiori. Il mio legame con il Cagliari era nato su due sillabe: “Gigi”».

Il primo ricordo calcistico nitido che lei ha a cosa si riferisce?

«Al campionato 1968-1969. Ero piccolissimo, ma quello era un Cagliari fantastico, la squadra di Riva e Boninsegna. Ero piccolissimo - cinque anni - ma già mi tenevo informato sul calendario e sulle partite. Festeggiai il titolo di campioni d’inverno, poi purtroppo lo scudetto lo vinse la Fiorentina».

E cosa l’aveva attratta, nella figura di Gigi?

«Un concentrato di messaggi che mi emozionavano. Gli stessi che arrivavano a tanti bambini come me in tutta Italia».

Quali?

«Il primo era lo stupore: Riva aveva ribaltato tutti i pronostici, ribaltato tutte le gerarchie, ogni previsione con lui era diventata impossibile».

E poi?

«Veniva da una provincia, come quella in cui vivevo io: non era un predestinato dalla sorte. Vivevo circondato da meridionali che non tifavano Napoli, perché volevano vincere: interisti, juventini i milanisti».

Lei mosca bianca.

«All’inizio mi sentivo isolato e questo mi dava una soddisfazione e una identificazione in più. Nel mio piccolo mi sentivo controcorrente, come Gigi».

E si arriva al campionato 69-70.

«Ormai ero diventato “grande”: potevo leggere e scrivere. Questa passione per Riva mi faceva crescere. Ero incuriosito. Scoprivo sempre più cose sulla sua sua vita».

Aneddoti che la colpivano?

«Enormemente. Mi sembrava un personaggio nato in uno dei romanzi di Charles Dickens che mi faceva leggere mia madre in quegli anni: “Grandi speranze”, “Oliver Twist”».

Ed era un elemento di fascino per lei?

«Metà dell’Italia si riconosceva nella sua storia. L’altra metà nel suo riscatto. I compagni juventini-milan-interisti di Avellino iniziarono ad interessarsi del mio idolo, convinti che era solo questione di tempo: Gigi sarebbe diventato uno dei loro».

E poi c’erano i gol.

«Avevo già trasfigurato Riva in un eroe. La scoperta del grande talento in campo, per me era il tocco di Dio un dono del signore. Nella primavera del 1970 - il mio compleanno è in aprile - il poema epico divenne definitivamente mito».

Perché arrivava lo scudetto.

«Il primo scudetto mai vinto a sud di Roma. Quell’anno si realizzò un sogno, non solo dei calciatori».

Cioè?

«I resocontisti del Cagliari erano Sandro Ciotti ed Enrico Ameri. Diventarono le colonne di Novantesimo minuto, l’appuntamento che aspettavo con ansia in radio».

Non c’erano Sky e DAZN. Era italia in bianco e nero, senza immagini.

«Il calcio erano le voci. I suoni, le radioline. La Rai trasmetteva, di una sola partita di cartello, il primo tempo o il secondo. Quella partita, molto spesso, era quella del Cagliari».

Le vedevate nel vostro tinello?

«Sì, a via Tagliamento, con mio padre».

Che, malgrado fosse bianconero non la ostacolò.

«Al contrario: la sua figura di genitore è stata fantastica. Era lui che seguiva me nella passione per Riva».

Come?

«Dallo scudetto in poi mio padre mi portava a vedere il Cagliari, ogni volta che giocava a Napoli. Partivamo da Avellino con la nostra Fiat 850. All’andata fantasticavamo sulle aspettative, al ritorno si commentavano i gol. E io mi ricordo tutto».

Il giorno più bello?

«Italia-Germania est a Napoli. 22 gennaio 1969, Riva segnò in tuffo, volando in posa acrobatica. La più bella, per me, delle sue reti azzurre. Ne parlammo per giorni».

Sempre con suo padre?

«Mi assecondava moltissimo era una nostra complicità: credo capisse che quello era il mio romanzo di formazione. Che Riva incarnava e comunicava valori: lealtà, rigore, coraggio. Ed è così anche oggi. Incarnava anche fisicamente questa immagine idealizzata. Alto, taciturno, anche bello. E non era finita».

Perché?

«Sull’impianto di questo racconto, arriva il momento del grande rifiuto. Il no alla Juventus che vissi con sorpresa e gioia».

Cosa voleva dire quel no per lei?

«Rifiutando il denaro, il potere, il luccichio delle lusinghe, il mio Gigi non cedeva a nessuno, e quello lo rendeva un esempio».

Un altro ricordo?

«Il dramma del 1971. Mi ricordo la famosa partita Inter-Cagliari uno a tre con Brera che scrive: “Gigi Riva, io qui ti ribattezzo Rombo di tuono”. E poi la vittoria con il Saint’Etienne in Coppa dei campioni, Cagliari qualificato. Come tanti altri pensavo: “Vinceranno ancora lo scudetto”».

E invece arrivò il dramma.

«La Nazionale giocava con l’Austria. Norbert Hoff, quella sera al Prater, ruppe la gamba a Gigi».

Ricorda anche quello?

«Come ieri. Eravamo a casa di parenti di mia madre, le immagini di Riva in barella, sofferente, e gli zii che consolavano me, come fosse accaduto a me».

Commovente.

«Quando il Cagliari iniziò il declino, per uno strano cortocircuito, iniziava l’ascesa dell’Avellino».

E cosa accadde?

«Nel 1973 dopo la storica promozione in serie B, i biancoverdi giocarono un’amichevole e venne il Cagliari in trasferta».

Lei e sua padre c’eravate.

«Ovvio. L’Avellino cedette due dei migliori attaccanti Nobili e Marchesi, che era lodigiano. Pensi».

Cosa?

«Tredici anni fa mi ritrovo da prefetto a Lodi e lo faccio cercare».

Desiderio Marchesi?

«Proprio lui. Persona fantastica. Iniziò a raccontarmi e io gli chiedevo: “Com’é giocare con Riva?”. Lui si commuoveva. E poi mi mandò una foto di loro due con la maglia del Cagliari, quella bianca mitica con i laccetti».

Le è rimasto l’interesse.

«Pensi che pochi mesi fa andai a Cagliari e volevo far visita a Riva, ma lui non poteva. Andai a visitare la sede del club, con Giulini».

E poi?

«Dopo pochi giorni mi arriva al ministero una sorpresa: una delle mitiche maglie bianche di Riva, con bordino tricolore, numero 11, autografata di pugno da lui».

E oggi?

«Il senso di quel funerale è che il messaggio di cui parlavamo è ancora potente. Giovedì ho fatto una riunione con Abodi e la Lega sui fatti di Udine. E pensavo: dobbiamo scrivere un codice Riva, trasformare questa memoria in una lezione civile».

Avete già deciso delle cose?

«Una prima idea che applicheremo è di individuare le persone, per andare anche oltre il concetto della responsabilità oggettiva delle società».

Cosa vorrebbe?

«Che il mondo del calcio prendesse le distanze dagli episodi di razzismo e intolleranza».

Tornerà a Cagliari?

«Mi riprometto di farlo per visitare la signora Gianna, Nicola e i figli e Mauro. In veste privata».

Cosa cambia da oggi?

«Da oggi il calcio ha un riferimento. Il semidio di quando ero bambino oggi si è trasformato in una divinità che indica e da l’esempio». 

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