Una riflessione sulla Sardegna, sui sardi, sul lavoro e sulla crisi. E sul ruolo oggi di Nuoro, una "città in cui il consumo di antidepressivi supera ormai quello del cannonau".

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Tra i tanti, un inquietante aspetto della crisi sarda è il trionfo - per l'esaurirsi di alternative più degne - di quelli che gli americani chiamano "bullshit jobs", chiedo venia per la crudezza, cioè dei lavori se non fondamentalmente superflui, almeno sostituibili con tecnologie ormai banali, e comunque di nessuno stimolo per chi li svolge.

Non voglio generalizzare, ma guardandomi intorno (beh, forse il campione rappresentato da Nuoro non può essere considerato scientifico, ma è quanto tocco ogni giorno con mano), quelli rimasti sono lavori ridotti a compiti routinari, ormai tanto digeriti da chi li svolge da diventare un bieco passatempo o un tormento, dipende dalle singole sensibilità e aspettative.

I migliori, i più responsabili e consapevoli, si accorgono di subire una forma di violenza psicologica: il loro lavoro di barra-caselle (non c'è bisogno di spiegare il nome) o di supervisori (che guardano gli altri lavorare) non dovrebbe più esistere in un'organizzazione moderna, e inevitabilmente li dequalifica. I più fragili si deprimono e, non a caso, Nuoro sta diventando una città in cui il consumo di antidepressivi supera ormai quello del cannonau - quando pure con quest'ultimo non si ricerchi lo stesso effetto. Ci sono, è pur vero, persone che sono in fondo contente di poter aver tempo e testa per l'accompagnamento dei figli (in nessun altro paese al mondo i figli sono tanto "accompagnati" quanto da noi), per gli hobby e i funerali, compiti sociali e istituzionali che invero assorbono molte energie.

Una qualche vivezza sempre più al lumicino è mantenuta dai migliori artigiani, imprenditori, liberi professionisti e da tutta una serie di lavoratori toccasana per la società (medici e infermieri, meccanici, insegnanti, netturbini, ecc.), ma l'impressione di vivere in una città di risulta, di obiettivi deviati, è crescente. Nuoro è quanto rimane del sogno corrotto di una crescita sino a ottantamila abitanti, di una "città del terziario", l'utopia che ci ha illuso e cambiato, portando da una parte a distruggere le memorie del passato, il carcere, il comune, ecc., dall'altro a disegnare un piano di sviluppo che somiglia a un polpo con lunghi e costosi tentacoli (le famose periferie) che oggi non si riesce più a nutrire e giustificare.

Mentre paesi circostanti hanno investito con successo sull'identità e sulla specificità, Nuoro si è spersonalizzata, è diventata un organismo abnorme che lentamente muore su se stessa. La gente è stanca, esasperata. Nella personale dignità, nella mancanza di speranza, nell'affievolirsi delle proprietà e del reddito, ognuno tocca con mano quanto e come la politica degli ultimi decenni abbia fallito.

Eppure, la popolazione ha dato chiarissimi e ripetuti segnali di voglia di cambiamento - le delusioni odierne non possono soffocare il sotterraneo desiderio di riemergere. A Nuoro sono disponibili talenti, idee, energie positive e tante persone vogliose di modificare il loro "bullshit job".

Eppure, ancora penso che non possa esistere una Sardegna forte senza una Nuoro forte, una Nuoro che sia una città votata all'arte e all'accoglienza, al bello, ai valori positivi dell'esistenza, la capitale della cultura, sì, un lavorìo di ricerche e studi aperto al mondo, una sorgente di scoperte.

Eppure, si può ripartire costruendo un altro percorso, sostituendo la partita di giro di perdenti che ci tarpa le ali con persone capaci e votate al bene comune. Riscoprendo nella buona pratica quotidiana lo spirito sardo, quello comunitario, orgoglioso e sano, contrapposto all'affarismo utile a pochi, all'attendismo manipolatorio e alle ipocrisie politiche che ci hanno messo in ginocchio. Perché la soluzione allo sfacelo che ci strangola sta nella dimensione spirituale e nel fare bene le cose. Noi - ricordiamocelo - siamo sardi.

Ciriaco Offeddu

(Manager e scrittore)
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