«Sempre». La risposta è disarmante quanto sincera. Il camionista incappucciato protegge la sua identità ma racconta senza veli quello che succede in quei viaggi senza fine di rifiuti pericolosi spediti impunemente in terra sarda. La domanda è circostanziata e mira a svelare quello che realmente accade lungo la rotta dei veleni, dal continente sino all’Isola dei Nuraghi.

Gli domandiamo se gli è mai capitato di viaggiare con un carico di rifiuti superiore a quello dichiarato nei documenti. La confessione non ammette preamboli e la risposta è secca: «Sempre».

“Top Secret” – La testimonianza è quella di un giovane autista che ha deciso di raccontare alle telecamere di “Top Secret”, la trasmissione d’inchiesta di Videolina, i dettagli di un trasbordo di veleni ben oltre l’illegalità. La voce è tenue, quanto decisa, il racconto è carico di sensi di colpa per quel trasporto che avvelena la terra dei propri figli. E’ la coscienza che lo agita: < >. Per lui la vita è scandita da quel sali e scendi dall’avamporto del molo di Ponente, a ridosso della via Roma a Cagliari, sino al Capo di Sopra. Ogni giorno, prima che le prime luci dell’alba abbiano conquistato il proscenio del Golfo degli Angeli, le ruote motrici di quel trattore traguardano l’ingresso del porto costeggiando il versante di Santa Gilla. Tanfo da Km Quello che lo aspetta, però, lo percepisce da molto prima: «Da viale la Playa, prima dell’ingresso a Cagliari, percepivo che anche quella mattina mi sarebbero toccati i fanghi fognari della Puglia. Un tanfo nauseabondo che si poteva fronteggiare solo con maschere adeguate». A preoccuparlo, però, non era solo la puzza estrema elevata a rango di cazzotti in faccia. Ogni alba era un’incognita sulla legalità di quel viaggio. Lo racconta con il tremore di ritorsioni dietro l’angolo in un lavoro che non concepisce il rispetto delle regole. «Il primo viaggio che ho fatto di questi rifiuti è stato verso la discarica di Scala Erre di Sassari, verso Stintino, quella della Siged. Quando sono arrivato in porto mi sono accorto che il rimorchio era senza documenti. Non aveva la bolla di accompagnamento, (il Fir, Foglio identificativo dei rifiuti) che deve essere obbligatoriamente in uno dei cassetti del rimorchio. L’ho dovuto chiedere. Da allora è sempre stato così. Nei rimorchi quasi mai c’erano i documenti. Il più delle volte dovevo attendere un impiegato della sede locale dell’azienda di trasporti che ci consegnava un documento. Solitamente erano bolle contenute in una valigia che scendeva dalla nave. E’ in quel momento che potevo leggere cosa trasportavo e il quantitativo del carico». Un peso dei rifiuti trasportati registrato, in teoria, nel luogo di partenza di quel carico, in quel caso proveniente direttamente dall’Acquedotto Pugliese. Il peso falso Non ci voleva molto per capire che in quei documenti c’era scritto il falso. E’ nell’incedere del tramonto, nascosto tra due rimorchi, che il camionista racconta: «Quando agganciavo il trattore al rimorchio mi accorgevo subito che qualcosa non andava. Il mezzo faceva fatica ad agganciare e mi rendevo conto di un sovraccarico insopportabile». Una volta superata la pianura delle risaie, a ridosso della foce del Tirso, poco prima di Abbasanta, le pendenze si facevano titaniche per un carico fuori da ogni regola. La salita di Santa Cristina Il racconto è agitato: «Dopo Santa Cristina avevo la certezza che il carico fosse fuori misura e il peso notevolmente superiore da quello dichiarato nei documenti. Sapevo che stavo rischiando molto, ma non avevo altra scelta. Se avessi detto qualcosa mi avrebbero licenziato. All’istante». Sino all’arrivo nella discarica oltre Sassari, verso la direttrice per Stintino, quando la pesa dell’impianto di smaltimento non faceva altro che spostare avanti e non di poco la lancetta del carico rispetto a quello messo nero su bianco in partenza. La testimonianza protetta è choc: «Ogni volta il carico era superiore di oltre 100 quintali, 10 mila kg di fanghi, rispetto al peso iniziale. Sapevo che si trattava di un fatto grave ma non avevo altra scelta». Le prove La confessione è circostanziata di episodi e riscontri. Ci mostra quelle bolle e riscontra un via vai di rifiuti dal Continente sconosciuto ai più. Ogni giorno, tutti i giorni, per due anni, «sempre» la stessa storia: «Non viaggiavo mai solo. Eravamo da un minimo di due a un massimo di sei camion carichi di fanghi fognari provenienti dal sud Italia. Li portavamo sia nella discarica privata di Sassari che all’impianto di Magomadas».

La discarica di Carbonia (L'Unione Sarda)
La discarica di Carbonia (L'Unione Sarda)
La discarica di Carbonia (L'Unione Sarda)

L’angoscia di quei viaggi fuorilegge non era solo legata a quel sovraccarico riscontrato. A tenere sulle corde gli autisti della notte, i padroni della strada, era soprattutto la domanda che si stanno facendo anche gli inquirenti: come è possibile quell’incremento di peso tra la partenza e l’arrivo? «Ce lo domandavamo in silenzio, ma a me personalmente mi angosciava. Superare di un “quintalaggio” così rilevante, oltre 100 quintali in più, significa che qualcuno potrebbe aver aggiunto qualcos’altro lungo il tragitto. E’ molto probabile che quei tempi di percorrenza così lunghi, anche un mese dalla partenza all’arrivo in Sardegna, servissero per caricare dell’altro. Non è normale tenere in viaggio per tutti quei giorni un rimorchio. Solitamente prima scarichi e prima ti pagano. Qui succedeva qualcos’altro, ma non in Sardegna. Sicuramente si sono fermati in qualche altro posto».L’azienda per la quale lavora il testimone dei viaggi dei rifiuti verso l’Isola non è sarda. Quartier generale Base logistica e quartier generale in Campania, sede distaccata nella zona industriale di Macchiareddu. Un’azienda dominus dei trasporti dei rifiuti, pericolosi e non, verso la Sardegna. Una sorta di longa manus della Campania sui veleni spediti nell’Isola dal sud e dal nord, passando per il confine tra la Campania e il Lazio. Ai fanghi fognari pugliesi si è poi affiancato quello dei rifiuti pericolosi destinati all’oasi di veleni nel cuore del Sulcis tra Carbonia e Gonnesa, nella discarica della Riverso. Anche in questo caso il trasbordo dei documenti di carico avveniva il più delle volte con le stesse modalità: valigetta a bordo della nave e poi consegna agli autisti dei fogli identificativi dei rifiuti. Il carico di veleni Il racconto anche in questo caso è circostanziato: «Trasportavamo di tutto, sempre, comunque, rifiuti pericolosi. Quei veleni li caricavamo con rimorchi pieni di big bags (grandi buste) oppure alla rinfusa nel cassone del Tir. La destinazione di questi rifiuti è sempre la discarica di Barega, della ditta Riverso. Solitamente sono rifiuti contenenti amianto e ceneri di inceneritori, arrivavano sia dal sud che dal nord Italia». La fila dei tir Il via vai è infinito: «Ogni giorno erano anche 17 i camion in fila per entrare in discarica, capitava di andare anche due o anche tre volte al giorno. Ogni volta sempre la stessa fila». La consapevolezza di un business infinito è scritta in quella interminabile colonna di mezzi che si staglia a ridosso di Monte Onixeddu, nel cuore del vecchio villaggio minerario trasformatosi di punto in bianco in una montagna di veleni. I soldi sono alla base di tutto: «Non ci sarebbe tutto questo accanimento se non ci fossero di mezzo tanti bei soldini da mettersi in tasca. Se arrivi a far viaggiare i mezzi così sovraccarichi e fuori legge vuol dire che il guadagno è tantissimo». Guadagni e povertà Loro i signori dei veleni fanno i soldi a palate ma qui molto spesso resta solo inquinamento e povertà. «Lavoro ogni giorno dalle 13 alle 15 ore per mille e seicento euro al mese. Mi vergogno per quello che faccio ma ho moglie e figli a casa. Spero solo che tutto questo un giorno abbia fine. Che si possa lavorare senza continuare ad inquinare la nostra terra». I bilanci delle società made in Campania crescono a dismisura, da quelle dei trasporti ai gestori delle discariche. Nel Sulcis, invece, crescono le montagne dei veleni. E la povertà. 

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