Le capita di pregare?

«Sempre. Tutti i giorni, tutte le mattine, tutte le sere. Molte volte, quando passo davanti alle chiese, ai cimiteri, non perdo l’occasione per fare una preghiera anche per i miei amici che non ci sono più».

Nello studio multimediale dell’Unione Sarda Massimo Cellino è ospite del nuovo format “La voce sarda”, con Ambra Pintore bravissima a far aprire l’ex presidente del Cagliari Calcio. La trasmissione, da non perdere, andrà in onda tra qualche settimana su Videolina. «Presidente, ci ritroviamo. Mi racconta qualcosa per il giornale?». «Volentieri, mi concede il tempo di una sigaretta?». Fatto.

Quanto le manca il Cagliari?

«Mi manca tutta quella vita. Il Cagliari, quello che ha rappresentato in quegli anni mi manca. Mi manca la mia giovinezza, gli anni più belli, più duri della mia vita, però solo bei ricordi».

Il calcio le manca dopo i fatti di Brescia?

«No. Non c’è più il calcio che conosciamo, per il quale siamo andati a vedere le nostre squadre negli stadi. Il sistema è scoppiato e chi gestisce la Federazione ha devastato il calcio. E chi li ostacola viene sopraffatto e distrutto».

Lei è stato presidente della Lega Calcio vent’anni fa. Cos’è cambiato?

«Tutto. Prima c’erano i presidenti, c’erano le proprietà che rappresentavano le società di calcio. Oggi ci sono dei dirigenti più o meno capaci. Ci sono rappresentanti di fondi, qualcuno di cui non si conosce la provenienza, perché l’Italia, a differenza dell’Inghilterra, permette ancora l’introito di certi fondi poco chiari».

Lei ha costruito come ex voto una cappella nel centro sportivo di Brescia. Lo rifarebbe?

«Diciamo che l’ho pagata cara. Mi hanno spiegato che il maligno si accanisce con chi fa qualcosa di importante per la Chiesa. Io l’ho costruita perché avevo fatto un voto all’Immacolata, in caso di promozione in Serie A. E se vado a Brescia, la prima cosa che faccio è andare a pregare in quella cappella. Anche se il maligno si è accanito in una città dove la bestemmia è troppo diffusa. Una cosa che non ho mai tollerato».

Lei ha giocato a calcio?

«Come tutti noi, ma non ero un calciatore».

Ha lavorato per anni nell’azienda di famiglia, impegnata nella filiera del grano. È più facile muoversi nell’agroindustria o nel calcio?

«Diciamo che sono due cose dove ci sono dei valori umani molto presenti. Quando tu produci un qualcosa che va nella grande distribuzione ed è un bene di prima necessità, sei vicino all’uomo e devi rispettare l’ambiente e la natura. E io penso che il calcio sia una fonte di esempio, di educazione e di rispetto della natura e di Dio. E l’agricoltura assomiglia molto al calcio, si semina e si raccoglie».

Lei a 22 anni si era trasferito in Australia.

«Tentarono di sequestrarmi, in viale La Plaia, il 23 febbraio 1978, se non ricordo male. Rientravo a casa dall’ufficio, alla Sem. C’erano tre persone armate, con i mitra spianati. Scappai, spararono sulla macchina. Mio padre mi mandò in Australia trasferendo tutta la famiglia fuori dalla Sardegna. Rimase solamente lui a Sanluri con mia mamma e mio fratello più giovane, Alberto. Vivevano praticamente con i carabinieri in casa».

In Australia è rimasto cinque anni. Ci è mai tornato?

«No, avevo ricordi talmente belli e felici che non volevo guastarli. Lì sono cresciuto, mi sono sentito uomo, ho capito che valori avevo».

A 35 anni acquistò il Cagliari per 16 miliardi dalla famiglia Orrù. Che cosa la spinse?

«L’incoscienza. L’incoscienza e poi il nostro concorrente numero uno in Italia, Franco Ambrosio, proprietario dell’Italgrani. Massimo, prenditi il Cagliari perché il Napoli ha già preso Fonseca e non hanno il coraggio di firmargli il contratto. Io non capivo nulla di calcio. Lo compriamo insieme il Cagliari. Così dai, sono 12 miliardi di lire. C****, tutti questi soldi. Io andai a Napoli dal presidente Ferlaino a chiudere l’operazione: 50,1% noi, 49% Franco Ambrosio con una sua società immobiliare. Poi dopo sei mesi rilevammo tutto».

Cosa la spinse, dopo 23 campionati, a vendere il Cagliari a Tommaso Giulini?

«Tommaso Giulini è stato l’unico, con un prezzo molto più basso di altri, concreto. Devo dire la verità. Mi ha conquistato con una bottiglia di whisky. Venne a Leeds a trovarmi e mi portò una bottiglia di Blue Label. Io sono un sentimentale e il whisky mi piace. Fu un incontro simpatico, perciò feci di tutto per dare a lui il Cagliari».

Aveva avuto altre offerte.

«C’erano altri compratori, con più soldi. Avevo già un’operazione avviata con il Qatar, con un referente che stava in Svizzera, che mi disse Noi compriamo il Cagliari, ma compriamo anche Massimo Cellino, vogliamo che tu rimanga a Cagliari. Compratemi il Cagliari, dissi, ma io non posso rimanere perché sono in una situazione molto imbarazzante con l’amministrazione comunale. Non sono una garanzia. No, no, tu rimani. Accettai. Ma ci fu una partita, Cagliari-Milan, vincevamo 1-0. Lopez fece un cambio del cavolo e il Milan pareggiò nel finale. Mi chiamarono e mi dissero butta via Lopez. Perché lo devo mandare via? No, no, tu devi farlo perché tu sei il nostro cameriere, mi disse questo qui, un algerino con la delega di un imprenditore del Qatar. Io non sono il cameriere di nessuno, io sono il cameriere del Cagliari, non cameriere vostro. Perciò, se volete il Cagliari, prendetelo, ma io non rimango con voi. Non se ne fece nulla».

Quattro campionati a Leeds.

«Sono arrivato in una società che perdeva 100.000 sterline al giorno. Facevo i salti di notte nel letto perché ero ossessionato da questo. In un anno l’ho portata a 7 milioni di perdita, l’anno successivo il break even, il terzo anno era in utile. Ho pulito tutto, ho pagato tutti i debiti del Leeds. Poi l’ho ceduta per poco meno di quanto l’avevo pagata. Quello inglese era un calcio, era un tavolo troppo caro per me, non avevo le finanze per poter competere. La verità è questa, avrei rischiato di farmi male».

Poi l’amore per il Brescia… Posso dire amore?

«No, no, no. Io ho preso il Brescia perché sono stato allettato all’inizio. Ero convinto che ci fosse una società molto più organizzata. Io, arrivato dall’Inghilterra, pensavo di spenderci un giorno al mese, a Brescia. Invece mi sono reso conto che c’erano molti più debiti di quelli che mi avevano dichiarato. C’erano 12 milioni di debiti Iva e me li hanno chiesti il giorno dopo che sono arrivato. Sono riuscito a salire in Serie A, poi è arrivato il Covid. Ma soprattutto c’è stata tanta cattiveria, tanta malvagità, io non riesco proprio a capirlo. Però è il posto malvagio. Se una società, in 115 anni, ha fatto 10 anni di Serie A e 105 in altre categorie, non è colpa di Massimo Cellino. C’è il maligno là dentro. A parte il fatto che il compleanno del Brescia è il 17 luglio. Se l’avessi saputo, col c**** che l’avrei comprato».

Lei ripete in ogni occasione di aver sempre pagato tutto.

«Sempre. Io in 35 anni di calcio avrò pagato mediamente 50 milioni all’anno di stipendi».

Per i fatti di Brescia, quindi, lei si sente vittima.

«Io non mi sento, io sono vittima di una serie di circostanze negative, con una Sampdoria che non deve retrocedere perché ha 200 milioni di debiti e ha garanzie con delle banche e con la Federazione, che l’ha iscritta l’anno precedente, impropriamente, al campionato. Questa è la realtà. Con un commercialista bresciano che mi vende i titoli con la quietanza dell’ufficio delle Entrate, con la supervisione federale della Covisoc. E un giorno prima dell’iscrizione mi dicono che è tutto falso e che devo tirar fuori 8 milioni in 24 ore per iscrivere la società, retrocessa in Serie C. Non ce li avevo. Se l’avessi saputo li avrei procurati, non ce li avevo. Non ho potuto iscrivere la squadra. È quello che volevano loro. Ed è quello che è successo. Se avessi avuto tre punti in più sarebbe retrocessa la Sampdoria e non il Brescia. La mia è disgrazia è stata la coda del diavolo».

In 23 campionati a Cagliari chi le è rimasto più nel cuore?

«Non è facile. Tanti, troppi. Mazzone, Gianfranco Matteoli. Ma tanti, Cossu, Daniele Conti. Tanti, son troppi, troppi, troppi».

Un grande nome che avrebbe voluto in rossoblù?

«Sono felice di quello che ho fatto. Non ho rimpianti».

Le capita di sentire Max Allegri?

«Sì, lo sento. Anche se ultimamente ho sentito pochi, perché dopo quello che mi è successo il mio telefono squilla molto poco».

Lei Allegri l’ha sempre stimato.

«Penso sia ancora uno dei migliori allenatori al mondo. Il suo limite è che è molto provinciale, non ha voluto imparare l’inglese e non si è mai voluto confrontare. Ha sempre scelto la strada più facile. Però io ne ho visti tanti allenatori e Allegri ha una marcia in più».

Lei ha rotto con la politica per le vicende del Sant'Elia. C'è qualcosa di cui si pente?

«Io ho fatto tutto in buona fede e senza mancare di rispetto a nessuno, senza chiedere un euro. Ero dalla parte della ragione, lo facevo per il Cagliari e per quello che rappresentava il Cagliari per i sardi. Cosa posso dirle? Posso dirle che ho trovato un giovane Massimo Zedda che forse non ha capito Massimo Cellino».

Chissà, oggi…

«Oggi sicuramente. Io ero più esperto di lui e, devo essere sincero, forse anche il modo di propormi per chi non mi conosce può sembrare un po’ altezzoso. Ma è un modo di fare, anche per timidezza. Chi non mi conosce mi giudica male e lui non mi conosceva. Sicuramente mi ha giudicato male».

Sul futuro del Sant'Elia lei e Gigi Riva avevate una visione diversa. Riva voleva salvarlo.

«Completamente diversa. Io penso che Cagliari e la Sardegna abbiano bisogno di uno stadio più decoroso, che rappresenti una stabilità in prospettiva. Senza precludere una crescita dello stadio, un ampliamento, altre imprese intorno. Partendo, come avrebbe fatto mio padre, dal basso. Ecco, partirei con un investimento di un terzo di quello di cui si parla, lasciando la possibilità, in futuro, Giulini o chiunque altro possa venire, di poterlo completare. Un passo troppo grande potrebbe precludere per sempre la realizzazione. Non si dimentichi che Cagliari gioca in uno stadio temporaneo costruito su un parcheggio. È ancora lo stadio mio, quello lì, quello di Quartu, eh. Anche le stesse poltrone ci sono».

Perché non le hanno fatto fare lo stadio a Elmas?

«Sono andato a toccare un nervo scoperto. C’era un grosso finanziamento, con fondi europei, per l’ampliamento dell’aeroporto. E io, sempre convinto di essere il paladino dei sardi, Don Chisciotte, sono andato a combattere contro i mulini a vento e mi sono rotto la spina dorsale. Avevamo comprato tutto, già pagato, già approvato. Sa quanto hanno lavorato il Comune di Elmas, la Provincia, il presidente Cappellacci, che io all’epoca conoscevo poco o niente? Siamo stati, tutti, massacrati dalla politica nazionale. Ha perso lo stadio la Sardegna, non Massimo Cellino».

Sa che sta per aprire a Quartu il cantiere per risistemare Is Arenas?

«Allora. Is Arenas lo avremmo utilizzato massimo tre anni, perché o al Sant’Elia o a Elmas avremmo avuto lo stadio nuovo. E Quartu si sarebbe ritrovata un gran bell’impianto. L’atteggiamento di paura del Comune, che aveva fatto una grossa cosa per la città, ha fatto pensare che ci fosse qualcosa di male. Ma di male non c’era niente. E infatti...».

Cosa resta di quei giorni difficili? Buoncammino, Villamassargia.

«Guardi, quando sono stato arrestato pensavo fosse uno scherzo. Era il 14 di febbraio 2013. Dopo dieci anni stavo per partire a sciare con mia figlia. Suonano a casa, si presentano questi signori, la Forestale. Mi dicono Presidente, c’è un documento per lei. Io non avevo gli occhiali, non ho manco letto. Gli dissi: ma abbiamo qualche albero da tagliare nel giardino? No, legga bene. Feci leggere a mia moglie: era un mandato di custodia cautelare. Io sono andato a Buoncammino senza manette, continuando a girarmi per vedere se ci fossero le telecamere di Scherzi a parte. Lo dico sinceramente: questi signori erano in borghese, questi ragazzi qua, ragazzi normali, non erano in divisa, nulla. Quando mi sono ritrovato in cella, ho realizzato che non fosse uno scherzo. Io le dico che è stato allucinante. Ho solamente buttato dei soldi, ma abbiamo fatto uno stadio … operai, muratori, fabbri. Un’opera meravigliosa, fatta in tempi impensabili, perché col calcio non è che puoi dire rimandiamo un campionato e facciamo lo stadio un’altra volta. Noi al Sant’Elia non potevamo giocare. Vi ricordate quando giocavamo in casa a Trieste?».

Quanto ha aspettato per l’assoluzione?

«Intanto tre mesi tra prigione e arresti domiciliari, prima che mi liberassero da Roma perché non c’erano i presupposti per arrestarmi. Perché non ho fatto niente. Poi ho aspettato otto anni per l’assoluzione. Mi contestavano un abuso edilizio che non so che cosa voglia dire. Però devo dire una cosa, il mio non è un lamentarmi della giustizia, perché se io non credessi nella giustizia non continuerei a pagare gli avvocati per difendermi. Vede, alla fine anche a Cagliari ho trovato un giudice che mi ha assolto. In primo e in secondo grado. Abbiamo un ordinamento contorto, in Italia. Però se hai ragione, io lo consiglio a tutti, vai avanti a testa alta perché alla fine se c’è un giudice che sbaglia ce ne sono nove che mettono a posto le cose».

Dove vive?

«A Londra. Sono cittadino inglese. Io, mia moglie e mia figlia. Miami? La casa l’ho venduta sei anni fa. Ho giusto un piccolo appartamento».

Ha intitolato a sua madre Fanny Silesu una scuola di musica. E a suo padre Ercole il centro sportivo di Assemini. Che rapporto aveva con loro?

«Papà mi manca e ancora oggi lo sento vicino a me. Con mia mamma avevo un rapporto un po’ più conflittuale perché, diciamo, era quella che mi puniva di più. Una madre esemplare di cinque figli».

La musica.

«Lo zio di mia madre, Stanislao Silesu, era un grosso musicista e compositore, perciò lei ha sempre amato la musica, suonava il piano. Quelli della scuola sono stati anni meravigliosi, tanti ragazzi hanno imparato a suonare, a cantare. Se non ci fosse stata quella disgrazia di Quartu, chissà, magari saremmo ancora lì a fare concerti».

Ma lei suona ancora?

«Diciamo che ho ancora una sala con qualche chitarra, ma non c’è più il tempo né la voglia di prenderla in mano».

Lei ha tre figli, due maschi e una ragazza. Pensa di essere stato e di essere un buon padre per loro?

«No. Ho trascurato molto i miei figli. Però in compenso hanno avuto una buona madre, che è stata molto vicina, ha sempre vissuto per loro e ha sempre colmato l’assenza del padre. Devo ringraziare mia moglie per tutto quello che ha fatto».

Avevo chiesto a Max Solinas un ritratto dell’ex presidente del Cagliari. Il foto editor si presenta con il pallone ufficiale della Serie A, custodito sulla sua scrivania, più o meno gelosamente, da Enrico Pilia. Quella visione illumina Massimo Cellino, che ci giochicchia con le mani. E il ritmo dell’intervista sembra cambiare.

Torniamo al Cagliari. È vero che Carletto Mazzone voleva Schillaci, Klinsmann, Aldo Serena, Van Basten…

«Sììì! Io gli ho preso Weah, lui non lo volle perché voleva Schillaci. Ero a Montecarlo con Carmine Longo, in macchina, e al telefono ci disse ma che Weah e Weah, vojo Schillaci, presidè. Weah costava quanto è costato Olivera, lo pagammo 5 milioni di dollari. E Weah costava 7 miliardi e mezzo di lire».

Un pensiero per Fabiàn O’Neill. Le regalò un orologio.

«Sì, un Cartier da tavolo, ce l’ho ancora. Uno dei pochi regali. Se n’è andato troppo presto. Anche Lopez andò lì, in Uruguay, a trovarlo. Gli facemmo fare il tetto di casa. Mi chiamava, ogni tanto, dopo che smise di giocare. Mi ricordo quando in ufficio lo cercava la Polizia municipale, perché dopo un incidente scappò. Gli dissi: ma porca miseria, perché non la smetti di bere? Presidente, mio padre era borracho, mio zio era borracho, mio fratello è borracho, io sono borracho. Maledizione, quel sangue irlandese!».

Due piedi fatati.

«E un cuore d’oro. È morto in povertà. Questo pazzo, stentai a crederlo anche io, aveva un quinquennale di 3 miliardi e 8 all’anno alla Juventus. Ne fece uno, poi andò a Perugia, dove la Juve pagava 3 miliardi. Lui per tornare a Cagliari annullò il contratto. Non prese un euro. E venne qua a disintossicarsi. Ventura fece giocare Carrus al posto suo e lui disse: torno in Uruguay. Io non ci credetti. Mi chiamò dall’aeroporto. Ma stai zitto, gli dissi. Disgrazia ha voluto che fosse extracomunitario e non l’hanno fatto più rientrare. È morto troppo, troppo giovane».

Aveva una sua “tattica” nel gestire il mercato?

«Io i calciatori li vendevo bene e lo sa perché? Perché non li volevo vendere».

C’è un errore che non ripeterebbe.

«Ne ho fatti tanti. Quello che non rifarei è andare a prendere il Brescia».

Di cosa va più orgoglioso?

«La mia famiglia, i miei figli, mia moglie».

C’è un rito quando viene a Cagliari?

«Andare e mangiare un panino con la salciccia in un “caddozzone”. Come ai vecchi tempi. Ragazzi – in realtà sono ormai vecchi quasi come me – con il Cagliari nel cuore».

È orgoglioso di aver lasciato un bel ricordo nei tifosi sardi?

«Io avrei voluto dargli molto di più, però noi sardi abbiamo un grosso difetto, non apprezziamo quello che abbiamo, andiamo sempre a vedere quello che hanno gli altri. Se io voglio ritornare in Sardegna dopo che ho passato una vita all’estero, è perché la Sardegna è il paese più bello del mondo e non servono i soldi per godersela. Andare a farsi un bagno al Poetto non costa nulla. Questa è una ricchezza che pochi hanno».

È sempre il tifoso del Cagliari?

«Guardi, quando sono venuto a giocare contro il Cagliari che eravamo in Serie A, non ha capito quanto io sia stato male. Ho sofferto come un cane».

Resterà nel mondo del calcio o vuole disintossicarsi?

«Il business del calcio per me è finito, specialmente in Italia. Per me non c’è più futuro. Ostinarmi a continuare… Ho pagato malamente. A me piace giocare nei tavoli dove non si bara, dove ci sono persone oneste e serie. Nel calcio italiano persone serie ne sono rimaste poche. È pieno di avventurieri e di gente senza scrupoli».

Le capita di sentire Tommaso Giulini?

«L’ho sentito in passato. Devo dire la verità: non si è comportato lealmente nei miei confronti per delle stupidaggini, voti di Lega. A me se ti dico ti do il voto, te lo do. Se no, non te lo do. Ma non ho nulla contro di lui. E, se devo essere sincero, quando ho sentito qualche tifoso lamentarsi di Giulini, io mi sono permesso di difenderlo perché so cosa vuol dire fare il presidente di una squadra di calcio, so quanto sia difficile. Dal di fuori vedo che sta facendo salti mortali. E devo dire che sta facendo bene. Ormai ha la sua esperienza ed è una sicurezza per il Cagliari. Perciò, se non mi è simpatico, nessuno mi obbliga a dargli lingua in bocca, però prima di criticarlo ci penserei dieci volte. Lo promuovo con la sufficienza ampia».

Cos’è per lei la giustizia?

«La giustizia... Se tu credi in Dio, speri sempre che ci sia la giustizia divina. Però, c****, quella degli uomini te la fa pagare sulla terra, eh. La giustizia è trovare una persona che sia libera col cuore e possa giudicare quello che hai fatto, a prescindere dagli avvocati che hai o dalle prove che si costruiscono. La giustizia è lealtà, è guardare le persone in faccia e credere nella malvagità e nel bene. Io non sono una persona cattiva e riconosco quelle cattive, le vedo subito. Ho questo dono, me l’ha trasmesso mio padre. Le sento proprio a pelle le persone negative, cattive, malvagie. In Sardegna la maggior parte son buone. C’è molta ignoranza, ma c’è molta bontà. E non la trovi dappertutto».

Emanuele Dessì

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