Scorrono lente le sequenze di Bitti. Frame immortalati dal basso e dall'alto per scorgere le ragioni di quel paese di Barbagia travolto non solo dall'acqua. Nelle vie ripide di quel compluvio naturale si è riversata la montagna, dilavata come non mai da una caterva d'acqua che in un batter d'occhio si è riversata in quell'indifeso bacino imbrifero. Quelle viuzze strette trasformate in montagne russe per migliaia di metri cubi di roccia, terra e alberi. Tutto prevedibile e previsto. Del resto che quella fosse una conca naturale di quel paesaggio struggente lo si capisce rivolgendo lo sguardo a 360 gradi nella piazza centrale, circondata da strade tutte in salita che si rivolgono verso la montagna. A Bitti, così come in terra di Sardegna, si guarda l'effetto devastante dentro i centri abitati dopo che l'alluvione di turno è passata come un tornado senza regole. E' raro, invece, che lo sguardo sia rivolto a quanto accade lungo i costoni e le vette della montagna.

Prima regola

Nessun occhio rivolto alle pendici, nonostante la prima regola di chi studia il suolo e la geologia abbia messo nero su bianco una "legge" imprescindibile: per stare bene in pianura bisogna salvaguardare, proteggere e curare la montagna. Non solo investimenti miliardari ma attento governo del suolo, non elemento da sfruttare e consumare. Il dilavamento delle vette, delle pendici, che circondano le pianure è spesso il frutto di tagli dissennati di foreste, di incendi, di ardite arature nella linea di massima pendenza del terreno. Da che mondo è mondo le foreste attenuano l'impatto delle calamità, ammortizzano le perturbazioni che si abbattano spesso senza un domani su interi territori indifesi. Il suolo sfruttato e consumato è il primo rischio idrogeologico della terra. Non è un caso che Angelo Aru, il geopedologo sardo di fama internazionale, scomparso nei giorni scorsi, abbia scritto agli inizi degli anni novanta la Carta dei Suoli della Sardegna.

(L'Unione Sarda)
(L'Unione Sarda)
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La Bibbia del Suolo

Una Bibbia su come difendere una terra tanto delicata quanto ricca. Per lui la sintesi del concetto era in due parole: «usi possibili». Li aveva definiti così nell'ultimo accorato appello all'Accademia dei Georgofili: «la localizzazione di insediamenti va fatta tenendo conto della qualità dei suoli, andando ad incidere - laddove sia indispensabile - su quelli a minore capacità d'uso». In quest'Isola, perennemente devastata da alluvioni previste e prevedibili, occorre, dunque, una doppia strategia: il buon governo del territorio da una parte e la ricucitura infrastrutturale tra l'esistente e la natura. I dati che l'Istituto Superiore di Ricerca e Protezione Ambientale, l'Ispra, sono campane con battacchi pesanti che suonano incessantemente da nord a sud dell'Isola. Più che numeri sono un richiamo senza appello alla coscienza collettiva sul ruolo della natura e dell'ambiente.

A rischio 42.000 edifici

Basti un dato per comprendere: 115.640 sardi sono residenti in aree a rischio medio di alluvioni. Quasi 42 mila edifici sono in zone pericolose. E poi ci sono i dati choc sulle aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata: millecinquecento chilometri quadrati, il 6,2% del suolo regionale. Elementi che dovrebbero indurre tutti ad una maggiore consapevolezza del pericolo di scelte contro natura. I danni accertati da alluvioni in Sardegna dal 2013 ad oggi, escluso il caso Bitti 2020, sono messi nero su bianco sul report di Italia Sicura. Nell'Isola sono stati accertati 579 milioni di euro di danni. Calcoli fatti in base ai parametri tutti protesi al risparmio dello Stato. In realtà, nonostante la sottostima degli effetti e dei danni, in Sardegna è arrivato sempre poco o niente. E quel poco che è arrivato è fermo per uno scaricabarile senza precedenti nell'assunzione delle responsabilità sulla ricostruzione e sull'infrastrutturazione del post alluvione. Commissari governativi che non decidono e delegano a loro volta, con ritardi che si riversano su una generica burocrazia, senza che mai si individui un vero centro decisionale.

(L'Unione Sarda)
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Pericoli in 338 comuni

In Sardegna, secondo la mappa dei rischi stilata dal massimo organismo di protezione ambientale, ci sono aree di pericolo idrogeologico, alluvionale e di frane in 338 comuni su 377. In questi municipi si sommano aree ad "elevato" e "molto elevato" rischio frane insieme ad una pericolosità idraulica media. Il contesto sardo ha numeri impressionanti. In totale sono zone rosse 2.343 kmq, pari al 9,7% del territorio regionale. Una situazione esplosiva che ha prodotto molti studi, carta e armadi pieni, rimasti lettera morta, incapaci di attivare azioni emergenziali e nel contempo inquadrarle in una strategia di lungo termine. Erosione, compattamento, formazione di croste superficiali, perdita di struttura, perdita di sostanza organica, salinizzazione, acidificazione sono elementi che vanno inquadrati in un vero e proprio piano Marshall per la natura sarda. Il degrado del suolo dell'Isola e le aree a rischio sono due facce della stessa medaglia. I ritardi del caso Bitti, con scaricabarile settennale tra Stato e Regione, sono solo la punta di un iceberg che, insieme alla lentezza operativa, ha un vulnus rilevante, quello finanziario.

Caselle vuote

L'Autorità di bacino regionale, quella che ha in carico il quadro degli interventi su tutto il territorio, ha dato un codice "misura" ad ogni singolo progetto. Ne ha indicato la tipologia e la localizzazione, l'importo delle opere e poi ha indicato a lato due scadenze: "entro il 2021" oppure "oltre il 2021". La prima casella, quella con le opere entro il 2021 è praticamente vuota. La stragrande maggioranza delle opere è dislocata nella data infinita, oltre il 2021. L'importo delle opere è segnato con carattere bold. Rafforza la visuale ma non cambia la sostanza. Secondo il piano servono 1.618 milioni di euro di risorse per metter mano ad una valanga di progetti declinati comune per comune. Gli annunci si inseguono da anni, ma le risorse non esistono. In molti casi i rallentamenti, tra progetti e autorizzazioni, sono il mezzo per non stanziare effettivamente le risorse lasciando progetti e cantieri nei libri dei sogni.

Tutto paga il Recovery

La recente e consolidata regola, a livello regionale, così come a livello nazionale, è quella di rivolgere la promessa al Recovery Fund. Peccato che a Roma siano già arrivati progetti per investimenti dieci volte superiori agli stanziamenti europei, anch'essi, per adesso, solo annunciati. Un dato è incontrovertibile, dopo l'alluvione-disastro di Bitti cambia obbligatoriamente anche il modello di progettazione delle opere di mitigazione e contenimento. Gli scenari di calcolo delle opere idrauliche si basano su casistiche ben diverse da cui conseguono nuovi progetti e ovviamente nuovi costi. Le alluvioni si misurano in estensione, altezza idrica, velocità e portata del deflusso. E soprattutto sulla loro probabile periodicità, da quelle di estrema intensità ipotizzate due volte ogni 500 anni a quelle frequenti ogni 20/50. La botta d'acqua che ha messo in ginocchio la Barbagia di Bitti è un campanello d'allarme che non si può ignorare. Per stare bene in pianura bisogna curare, e in fretta, la montagna.

Mauro Pili
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