Al giudice Cristina Ornano bastano 29 minuti per decidere, meno di uno per leggere la sentenza: 16 anni e 8 mesi di carcere per omicidio volontario. Ruben De Agostini non fa una piega, si guarda attorno come assente, sino a quando gli agenti penitenziari non lo portano via dall'aula della Corte d'assise. L'imputato sfila veloce e col capo chino davanti ai suoi familiari in lacrime, poi gira l'angolo e si trova a due metri dai parenti di Simone Angius, il ragazzo di Maracalagonis a cui una notte d'inverno di due anni fa tolse la vita con una coltellata alla gola. Piangono anche loro. Lo vedono ed esplodono. «Assassino, maledetto, bastardo». Le urla alimentano la tensione, il rancore sferza l'aria come una corrente invisibile che contrae i volti e asciuga gli occhi. Poi gli avvocati degli uni e degli altri riportano la calma. E ognuno prende la sua strada, ritorna alle sue lacrime, alla sua disperazione.

LA SENTENZA Le 14,10 di ieri: è l'ora dell'epilogo giudiziario di una tragedia senza senso, ribattezzata dalle cronache come il delitto di Sant'Elia. Un epilogo prevedibile: dura condanna per l'omicida reo confesso, De Agostini Ruben, 20 anni oggi, 18 quando si sporcò le mani del sangue di Simone. Il giudice non ha creduto alle sue giustificazioni e lo ha condannato al massimo della pena possibile, considerato che il processo era in abbreviato, il che ha garantito all'imputato lo sconto di un terzo della pena, e che è stata sin da subito esclusa l'aggravante della premeditazione. Così la pena di 24 anni prevista per l'omicidio è scesa 16, con l'aggiunta di 8 mesi per il porto del coltello. Ci sono anche i risarcimenti: la Ornano ha riconosciuto una provvisionale di 75 mila euro ciascuno ai genitori di Angius, mentre alle quattro sorelle e al fratello della vittima andranno 30 mila euro a testa. «Era quello che ci aspettavamo», commentano i legali di parte civile Luigi Porcella e Luciana Pisano. «La riteniamo una pena eccessiva, vedremo in appello», l'opposta visione di quelli della difesa Bernardo Aste e Leonardo Filippi.

IL DELITTO La tragedia si consuma nel cuore di una notte fredda e senza luna, tra il 6 e il 7 dicembre del 2008, all'ingresso del tunnel nei pressi di palazzo Gariazzo. Angius è in compagnia dell'amico Efisio Pisu, unico testimone del delitto. «Stavamo cercando un po' di hascisc - racconterà in aula Pisu -, per cui ci siamo rivolti a un ragazzo con una cuffia che ci ha detto di aspettare. Poi io sono entrato nel bar per prendere delle birre. Quando sono uscito ho visto Simone e l'altro avvinghiati e quest'ultimo che lo colpiva da dietro con un coltello». Mentre Angius cade a terra in un lago di sangue, tutti fuggono. La vittima resta sull'asfalto per un'ora prima che qualcuno chiami il 118. Quando arriva in ospedale è ancora vivo, ma muore subito dopo a causa del fortissimo choc emorragico. Muore dissanguato.

LA CONFESSIONE De Agostini viene arrestato dopo poche ore: si è rifugiato a casa della nonna. Subito ammette di essere l'accoltellatore. Ma racconta la sua verità. Sostiene di aver incontrato Angius e l'amico dentro al locale, dove avrebbe anche giocato a biliardino con loro, circostanza quest'ultima che verrà confermata in aula dal barista. «Dentro il bar lui mi ha provocato e quando siamo usciti si è avvicinato minaccioso - aggiunge l'imputato -, così ho temuto un'aggressione e l'ho colpito col coltello, non volevo uccidere, solo difendermi». Gli inquirenti però non gli credono, né a caldo né mai. Secondo il pm Alessandro Pili, che chiede la condanna a 16 anni e due mesi, De Agostini colpì la vittima forse per uno sguardo male interpretato, ma non per una sfida palese o una minaccia reale. Inoltre l'imputato sapeva quel che faceva, visto che la perizia disposta dal Gup Ornano, ha chiarito che, nonostante sia affetto da un disturbo di personalità, è comunque in grado di intendere e volere. Ieri, nelle loro arringhe, i legali della difesa hanno tentato sino all'ultimo di convincere il giudice, proponendo moventi alternativi, perorando l'ipotesi di una legittima difesa putativa e chiedendo quanto meno il riconoscimento dell'attenuante della provocazione. Il verdetto però, aspettando le motivazioni, racconta una storia diversa: De Agostini sapeva di poter uccidere e non si è fermato.

MASSIMO LEDDA
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