Quando ci si accinge a parlare di un uomo come Gigi Riva, e a collocarlo nel contesto storico in cui è vissuto, bisogna farlo con il pudore e l’umiltà che sono state la cifra di un uomo che, insieme ai suoi compagni e a tutto quel Cagliari Calcio del 1969/70, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della Sardegna autonomistica e dell’Italia repubblicana.

Nella primavera del 1970, per la prima volta, a vincere il campionato di serie A era infatti una squadra che non apparteneva al Centro-Nord. Il processo di meridionalizzazione del calcio era del resto una tendenza avviata nel nuovo contesto repubblicano già a partire dalla fine degli anni Quaranta, con antecedenti nell’epoca fascista. Una tendenza interessante, che dimostra come nel percorso di modernizzazione nascente della nuova Italia repubblicana le élite economiche e politiche locali, a volte in contatto con grandi gruppi industriali come sarà anche nel caso del Cagliari dello scudetto, si sarebbero interessante in maniera determinante allo sport.

La storia e l’eroe

Gli anni Cinquanta e Sessanta sono un momento fondamentale in cui si assiste alla ricostruzione di un Paese che era uscito distrutto dalla dittatura e dalla Seconda guerra mondiale, e che in poco più di un decennio seppe diventare una potenza economica grazie al “boom economico”, con tassi di crescita costanti, miglioramento degli stili di vita di porzioni sempre più vaste della popolazione italiana che potevano accedere a consumi prima totalmente impossibili da ottenere. Un processo non omogeneo, caratterizzato da profonde disparità a partire da quelle territoriali, ma in cui la sensazione era davvero quella di un’Italia che sembrava uscire dalla sofferenza e dalla miseria. Un discorso che naturalmente vale anche per la Sardegna in cui nel 1963 arriva il diciannovenne Gigi Riva dopo un viaggio faticoso di diverse ore su un aeroplano ad elica.

La squadra

All’interno di questo contesto politico, sociale ed economico, il Cagliari Calcio era sicuramente una realtà in ascesa, anche se sino al 1964 non era mai stato in Serie A: l’aveva sfiorata nel lontano 1954, perdendo lo spareggio con la Pro Patria. Stare nella massima serie del campionato di calcio era già una grande occasione per la società e l’intera isola. E quella squadra era destinata ad entrare nella storia anche solo se si guardano i nomi di alcuni giocatori: Comunardo Niccolai, che rievoca un pezzo importante della storia contemporanea come quello della Comune di Parigi del 1871 e la passione degli anarchici e dei socialisti tra seconda metà Ottocento e prima metà del Novecento; o ancora Ricciotti Greatti, con il riferimento al quarto figlio di Garibaldi e ad un patriota del Risorgimento morto nel tentativo insurrezionale dei fratelli Bandiera nel 1844. E ancora echi garibaldini nel nome del mister, Manlio, come l’ultimo figlio dell’Eroe dei due mondi. Scopigno è del resto un personaggio straordinario, un grande intenditore di calcio tra i primi ad usare la difesa a quattro, un allenatore moderno nella gestione dei suoi ragazzi, ma pure un personaggio colto, già studente universitario in filosofia, capace di affascinare uno scrittore come Luciano Bianciardi che sul tecnico e sulla squadra scrive bellissimi articoli per il periodico “Epoca”. Solo uno come Scopigno poteva gestire la miscela esplosiva e potente della classe di Gigi Riva, perché il diciannovenne venuto da Leggiuno nel 1963 era davvero la figura carismatica di quella squadra, uno che con il suo sinistro poteva fare tutto. Ma non era solo la classe su cui tutti hanno scritto, quella che aveva Riva. Era la fisionomia dell’eroe sportivo dotato di carisma che lo rendeva eccezionale, anche quando il personaggio tutto faceva fuorché cercare la ribalta. Il goal si, quello sempre, ogni domenica, ma le luci del palcoscenico proprio no. Riva era il figlio perfetto di quell’ascesa sociale che il miracolo economico stava concedendo a milioni di italiani, ad un’intera nazione. Era l’impegno, il sudore, la fatica che si legava all’eccezionalità di un Paese che, pur uscendo da immani tragedie, si stava riscattando. Come Gigi, del resto, la cui infanzia poteva essere paragonabile a quella dolorosa dei protagonisti dei romanzi di Dickens.

Amore eterno

Un incontro, quello fra Riva e i sardi, che produce rispetto e un legame che presto diventa vincolo identitario, più forte delle lusinghe che provengono dalle grandi squadre del Nord, a cui il cannoniere ripete la stessa risposta del protagonista del romanzo di Hermann Melville, Bartleby lo scrivano: “Preferirei di no”. Da tutto questo derivò la decisione di rimanere in Sardegna, come segno di riconoscenza per una terra che l’aveva accolto ma soprattutto l’aveva rispettato per chi era, a prescindere dai successi con la maglia rossoblù. Un legame che ha palesato tutta la sua forza in occasione della scomparsa del campione.

Il commosso omaggio alla camera ardente e la folla partecipe ai funerali hanno dimostrato la forza del richiamo identitario della figura di Riva e di quella dei suoi compagni che riuscirono nell’impresa del 1970; il legame comunitario di un’isola e di una nazione attorno al corpo di un campione sportivo. Quelle immagini toccanti ci hanno fatto capire quanto un mito sportivo sia anche politico nel senso di appartenente alla sfera pubblica, per quella energia nel richiamare un momento di storia unificante legato ad un successo sportivo, all’interno della sua contestualizzazione temporale nell’Italia che esauriva la fase espansiva degli anni Sessanta ed entrava in un decennio complicato come quello degli anni Settanta. Riva ha avuto un’onoranza funebre degna di quei riti della religione civile che si riservano a capi di stato e di governo che hanno profondamente inciso nella storia dei loro paesi. Per lo storico dell’età contemporanea, la sua vita rientra in pieno nel racconto della nostra epoca e come tale diventerà oggetto di studio nella nostra università.

Gianluca Scroccu – Storico, Università di Cagliari

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