Intervista

«Sanità, la Sardegna deve investire di più sulla rete territoriale» 

Nino Cartabellotta: la crisi è strutturale e il Governo non riesce a invertire la rotta 

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«La salute è un diritto, non un privilegio», ripete come un mantra Nino Cartabellotta, il medico che guida la Fondazione Gimbe, l’organismo indipendente che, prima nei tempi bui del Covid, con i puntuali e seguitissimi monitoraggi su contagi, morti e vaccini, ora con i rapporti sul precario stato dei sistemi sanitari nazionale e regionali, è diventato un riferimento imprescindibile per i media, gli operatori, le istituzioni e, soprattutto, per il grande pubblico.

Sessant’anni, palermitano, specialista in Gastroenterologia e in Medicina interna, promotore dell’integrazione delle migliori evidenze scientifiche in tutte le decisioni politiche, manageriali, professionali che riguardano la salute delle persone, Cartabellotta ieri era a Cagliari per partecipare a “Facciamo il punto”, la due giorni (anche oggi all’Exma’) di dibattiti, idee e confronto per parlare di pace, intelligenza artificiale, economia, giovani e tanto altro, «una riflessione – spiega il senatore dem Marco Meloni che l’ha organizzata – per dimostrare che un governo progressista, capace di unire Pd e le altre forze democratiche e progressiste, non solo è possibile, ma è necessario. E la Sardegna può e deve essere il laboratorio di questo progetto».

Dottor Cartabellotta, domanda di rito, come sta la sanità in Italia?

«La sanità italiana vive una crisi strutturale, non più emergenziale. Dopo anni di definanziamento progressivo, il Servizio Sanitario Nazionale sta perdendo la sua capacità di garantire equità e universalismo, mentre aumentano le diseguaglianze territoriali e la spesa privata dei cittadini, che nel 2024 ha superato 41 miliardi di euro. Quasi 6 milioni di persone hanno rinunciato a prestazioni sanitarie per motivi economici o per i tempi d’attesa. In questo contesto, il Servizio sanitario rischia di trasformarsi da diritto universale a sistema a due velocità: pubblico per chi non può permettersi altro e privato per chi dispone di maggiori risorse».

Con la prossima Manovra il Governo sta cercando di invertire la rotta?

«Purtroppo no. La Manovra stanzia 2,4 miliardi per il 2026 e 2,65 miliardi per il 2027 e il 2028, ma in larga parte si tratta di risorse già previste o destinate a coprire aumenti contrattuali. In rapporto al Pil, il Fondo Sanitario Nazionale salirà solo temporaneamente al 6,16% nel 2026, per poi scendere al 5,93% nel 2028. Un segnale di arretramento, non di rilancio».

Le misure previste non saranno efficaci?

«Le misure come assunzioni straordinarie, potenziamento della prevenzione, aggiornamento delle tariffe sono utili ma frammentate. Manca una strategia di sistema, un piano pluriennale che riporti la sanità pubblica al centro dell’agenda politica. In sintesi, siamo di fronte a un’operazione di manutenzione ordinaria e l’auspicata inversione di rotta, ancora una volta, è rimandata alla prossima Manovra».

Ovunque mancano medici e infermieri: come si può rimediare?

«Non è tanto un problema di numeri quanto di attrattività. In Italia i i medici ci sono, ma sempre meno scelgono di lavorare nel pubblico. Le ragioni sono chiare: retribuzioni basse, carichi di lavoro insostenibili, burocrazia crescente e scarsa valorizzazione professionale. Per gli infermieri la situazione è ancora più grave: gli organici sono insufficienti e il numero di iscritti ai corsi di laurea continua a diminuire. Servono interventi strutturali».

Ad esempio?

«Eliminare i tetti di spesa per il personale, rendere i contratti più competitivi, migliorare le condizioni di lavoro e introdurre percorsi di carriera motivanti. Nel breve periodo sarà inevitabile ricorrere a reclutamenti dall’estero, ma la vera sfida è restituire dignità e attrattività alle professioni sanitarie, oggi schiacciate tra responsabilità enormi e riconoscimenti minimi».

Dramma liste d’attesa: le azioni messe in campo a livello nazionale e regionale sono un flop. Ne usciremo mai?

«Le liste d’attesa sono il sintomo più evidente di un sistema che non riesce più a rispondere alla domanda di salute. Finché non si interviene sulle cause strutturali – carenza di personale, definanziamento, disorganizzazione della rete territoriale – nessuna misura tampone potrà funzionare.

Le prestazioni aggiuntive aiutano?

«Gli straordinari o le prestazioni aggiuntive dei professionisti, finanziate anche dalla Manovra, servono solo a guadagnare tempo, ma non risolvono il problema. Anzi, la logica del “più lavori, più ti pago”, pur defiscalizzata, è difficilmente sostenibile in un contesto di burnout diffuso. Serve una strategia integrata: investire sull’efficienza organizzativa, potenziare la sanità territoriale, utilizzare in modo appropriato la telemedicina e riorganizzare l’offerta tra pubblico e privato convenzionato, garantendo trasparenza e priorità ai pazienti più fragili».

La Sardegna è ultima in Italia sulla maggior parte degli indicatori Lea.

«Sì, la Sardegna è una delle regioni che più risente delle diseguaglianze strutturali del Sistema sanitario. Pur risultando adempiente ai Livelli Essenziali di Assistenza, gli ultimi dati mostrano performance inferiori alla media nazionale, con criticità marcate nell’area ospedaliera e nella medicina territoriale. In molte zone dell’isola i cittadini faticano persino a trovare un medico di famiglia, con conseguente ricorso inappropriato ai pronto soccorso e un tasso di rinuncia alle cure che ha raggiunto il 17,2% della popolazione, contro una media nazionale del 9,9%.
Ancora, l’aspettativa di vita in Sardegna, pari nel 2024 a 82,8 anni contro una media nazionale di 83,4, è un indicatore eloquente: quando il sistema pubblico arretra, la salute peggiora. Serve un’azione di riequilibrio forte e continuativa, perché le differenze territoriali non sono solo un problema sanitario, ma anche sociale e di coesione nazionale».

Che consigli darebbe all’assessore Bartolazzi?

«Prima di tutto, costruire una visione di lungo periodo. La Sardegna deve puntare su una programmazione stabile, che metta al centro il territorio e le persone. Occorre investire sulla rete dei servizi territoriali, completando e rendendo operative le Case della Comunità e i servizi di assistenza domiciliare, oggi ancora troppo deboli. È poi indispensabile lavorare sul personale sanitario: aumentare l’attrattività delle strutture pubbliche, ridurre la precarietà, promuovere formazione e incentivi per trattenere i professionisti sull’Isola. Infine, è fondamentale utilizzare in modo efficiente le risorse del Pnrr e applicare con coerenza gli standard del Dm 77, che rappresentano un’occasione concreta per modernizzare la sanità sarda e renderla più vicina ai cittadini».

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