INVIATA
Nuragus. Diana Zanin è morta a 49 anni domenica notte, e i soccorritori arrivati con l’ambulanza che si è fermata davanti alla sua casa non hanno potuto fare alcunché se non constatare l’estrema magrezza e le insegne della malattia. «Le è mancato il respiro», è il referto delle signore che fanno capannello nella piazza davanti al Municipio di Nuragus, a quindici metri dalla casa di lei e dal piccolo market di cui era proprietaria. Oggi il cancello del negozio è chiuso e qualcuno ha lasciato un vasetto di minuscoli crisantemi, mentre il corpo di Diana è stato portato a Senorbì e riposa in una cella frigo in attesa della cremazione. Sempre che arrivi il via libera, visto che – dopo le segnalazioni del sindaco sul rifiuto da parte di lei delle cure mediche necessarie e su «un possibile condizionamento psicologico» – la Procura della Repubblica di Cagliari ha aperto un’inchiesta.
La voce del paese
Conviene raccontarla con estrema delicatezza questa storia confinata nello spazio accidentato in cui possono incontrarsi la libertà personale, le convinzioni ideologiche e persino la volontà di cedere e accettare una qualche sorta di condizionamento. Lo spazio in cui una persona può essere pienamente in sé, ed è qui – su questo crinale tutto da sondare – che si sono schierati da una parte il sindaco Giovanni Daga e tanti nella comunità, dall’altra il compagno Giuseppe. «Da oltre un anno Diana non era più lei», raccontano in paese, ed è la voce di chi la vedeva ogni giorno, più spesso dietro la cassa o il bancone del supermercato. Raccontano che era diventata «magra da non reggersi in piedi», e che aveva «il ventre gonfio». Che «si nutriva soltanto di insalate e di frullati». C’è chi riferisce il monito di diverse amiche affezionate: «Se continui così, muori».
Scritto nero su bianco
Il sindaco fece la prima segnalazione in Procura nel luglio scorso, riportando le segnalazioni dei concittadini e chiedendo accertamenti su un possibile «condizionamento psicologico e l’eventuale presenza di situazioni relazionali che limitino la libertà e la sicurezza personale» di Diana Zanin. L’altro ieri ha scritto nuovamente per dare notizia della morte e ribadire la richiesta di un’indagine, a partire dall’autopsia. «Non accuso nessuno, chiedo tuttavia che si faccia chiarezza», dice Giovanni Daga. «Io conoscevo Diana, tutto il paese le voleva bene. Era una donna piena di vita, una lottatrice. Per questo ci sembra assurdo che stesse male e non volesse curarsi».
Insieme da tre anni
«“Il corpo non si tocca”, diceva, ed era ciò che riteneva giusto». Giuseppe, il compagno di Diana, parla al di là del cancello del market di via Sant’Elia, nel cortiletto che porta alla casa attigua dove la donna viveva con l’anziana madre. Originario di Villacidro, magro, il viso incorniciato dalla barba rada, non vuole parlare ma due cose ci tiene a metterle in chiaro. «Stavamo insieme da tre anni, ho cercato in tutti i modi di convincerla a curarsi ma niente, lei non voleva. L’ho portata al pronto soccorso di San Gavino ed è venuta via. Ho lasciato il mio lavoro per farla star bene, per permetterle di andare nella nostra casa in montagna e riposare». La chiama «mia moglie». Io, puntualizza, «l’amavo, nessuno può dire il contrario».
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