Intervista

«Dignità anche nella malattia: la vita è intoccabile» 

L’arcivescovo Baturi: assistenza ai pazienti terminali e cure palliative, troppe disparità tra le regioni 

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«Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri», sostiene lo scrittore Umberto Eco. Secondo Adriano Bompiani, uno dei padri della bioetica italiana, «l’eutanasia è da cancellare, anche come parola del vocabolario». Due punti di vista differenti su un tema complesso. Nell’Isola fa passi avanti la proposta di legge sul fine vita tra polemiche che dividono non solo gli schieramenti ma che si insinuano anche all’interno della stessa maggioranza.

La Sardegna arriva dopo la Toscana che ha una legge già impugnata dal Governo. Su tutto questo prende posizione, esprimendo forti dubbi e perplessità, la Chiesa sarda con l’arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei Giuseppe Baturi ieri in visita nella sede del gruppo L’Unione Sarda dove ha incontrato l’editore Sergio Zuncheddu, il vicepresidente del consiglio d’amministrazione Franco Siddi e il direttore Emanuele Dessì. «Sarebbe meglio attendere gli sviluppi del percorso della legge nazionale perché è difficile immaginare su un tema così delicato una disparità regionale di trattamento. Su un argomento che riguarda la dignità dell’uomo e il diritto alla vita dobbiamo allontanare il pericolo di una frammentazione territoriale», dice il segretario generale della Cei, che richiama l’articolo della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: «Il diritto alla vita è il primo dei diritti inviolabili dell’uomo».

La Corte Costituzionale è intervenuta più volte sul fine vita.

«Ha sancito la non punibilità di colui che assiste a un suicidio e quindi lo agevola a certe condizioni, che devono essere considerate in modo sempre restrittivo. La Corte Costituzionale ha esplicitamente escluso l’esistenza di un diritto alla morte equivalente al diritto alla vita. Si deve ragionare in termini di eccezione, tenendo conto della libertà della persona, del valore della coscienza, dello stato terminale, della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. La Corte ha invocato l’intervento del Parlamento. Le commissioni del Senato stanno per esaminare il testo che a metà luglio dovrebbe arrivare in aula».

Quale è la posizione della Chiesa sul suicidio assistito?

«Vogliamo ribadire che il dramma di tante esistenze, definito “dolore totale”, non deriva solo dall’inabilità fisica, ma spesso anche dalla solitudine, da un dolore fisico che non è sopportabile, dalla necessità di assistenza psicologica e del coinvolgimento della società in termini affettivi. Intervenire in questi ambiti significa intervenire sulla libertà che è tale solo se non ha costrizioni morali. Come ha ricordato la Presidenza della Cei lo scorso 19 febbraio, “sulla vita non ci possono essere polarizzazioni o giochi al ribasso. La dignità non finisce con la malattia o quando viene meno l’efficienza. Non si tratta di accanimento, ma di non smarrire l’umanità”».

Ma che cosa si può fare di fronte a un “dolore totale”?

«La soluzione non è quella di anticipare o agevolare la morte ma rispondere in termini di cura totale».

Che cosa si intende per “cura totale”?

«È quella che si interessa dell’integrità fisica, degli aspetti affettivi, della cura domiciliare, della terapia del dolore e del coinvolgimento del terzo settore. Stiamo parlando delle cure palliative che sono un aspetto disciplinato dalla legge 38, che nel 2022 aveva l’obiettivo di raggiungere il 90% di copertura rispetto ai malati terminali. Su tutto il territorio nazionale registriamo una forte disparità di trattamento. In Trentino la copertura è oltre il 70%, in Sardegna non raggiunge il 5%».

L’hospice che garantisce cure palliative esclusive è un tassello fondamentale di questo sistema.

«In Sardegna, come in altre Regioni, manca un piano territoriale per l’istituzione degli hospice. C’è tanto da fare per sostenere un paziente terminale. Penso al ruolo che potrebbero svolgere le realtà associative. Lo spessore della nostra civiltà si misura sulla capacità di garantire una cura anche quando non c’è guarigione per fare in modo che nessuno venga abbandonato. È necessario avere ruoli definiti e coinvolgere il terzo settore per la co-progettazione. Quando parlo del terzo settore mi riferisco a reti comunitarie capaci di sviluppare empatia, amore per la persona, di contrastare l’acuirsi del disagio: la parrocchia, le associazioni, gli amici. La Chiesa offre il suo contributo e continuerà a farlo».

Come evitare il rischio dell’accanimento terapeutico?

«Occorre precisare che la Chiesa, sin da Pio XII, non considera lecito l’accanimento terapeutico. È un dato indiscutibile. Pio XII, parlando agli anestesisti, dichiarò lecita la sedazione profonda come mezzo per eliminare il dolore. La Chiesa – e questo va sottolineato – si pone il problema di scongiurare ogni forma di abbandono terapeutico. Per noi il valore non è la sofferenza, ma la vita e l’accompagnamento senza abbandono dentro una prossimità di amore e di cura. E questo aspetto è tanto più importante quando parliamo di quelle condizioni di infermità che non portano al fine vita in tempi brevi, ma sono altamente invalidanti».

Quale è la reale preoccupazione della Chiesa?

«Il fine vita richiede la dignità del vivere. Siamo preoccupati che il tema possa essere assimilato a quello del suicidio assistito. Occorre dedicarsi alla lotta al dolore e alla solitudine, alla predisposizione di spazi di accoglienza. Dobbiamo affermare il diritto alla cura e dell’esistere sino all’ultimo frammento di vita. Tutto questo vuol dire prendersi cura di una persona che non chiede di morire ma di essere amata. Del resto, anche Papa Leone XIV ha chiesto che attraverso la “testimonianza comune della dignità che Dio dona a ogni persona, senza eccezioni”, e l’accompagnamento “tenero e cristiano verso i malati gravi”, l’intera società sia incoraggiata a difendere, anziché minare, una civiltà fondata sull’amore autentico e la compassione genuina».

La sua posizione e quella di Marco Cappato: è immaginabile un dialogo?

«Noi dialoghiamo per cercare una possibilità di confronto con tutti in modo sereno, sui grandi valori. Penso che avere a cuore l’estensione delle cure palliative con tutto ciò che significa può essere un punto di convergenza anche con posizioni etiche e ideali diverse. In Senato si sta discutendo di dare priorità all’accesso alle cure palliative rispetto alla procedura del suicidio assistito. Sarebbe una priorità logica e giuridica. Penso che possa essere un buon punto di equilibrio».

Quali altri aspetti devono essere considerati?

«Possiamo trovare un modo per far avanzare il discorso sul fine vita facendoci carico di tutte le esigenze delle persone. Ma c’è un altro elemento che i provvedimenti legislativi non considerano: una logica di cura deve tener conto dei sacrifici che una famiglia deve sostenere per accudire un malato terminale. Vediamo, invece, considerazioni individualistiche. È il singolo che decide di sé. Ma l’uomo è dentro una rete affettiva che si chiama famiglia».

Il rapporto tra medico e paziente.

«Stiamo attenti a non trasformarlo in una procedura standardizzata e rigida. C’è uno spazio di convincimento, di dialogo, di fiducia reciproca che è quello terapeutico, un campo essenziale.

In realtà qualcosa già esiste. Ci sono le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat), il testamento biologico.

«Non mi convincono tanto, però indicano quello che deve essere fatto in condizioni estreme, non certo il suicidio. Adesso, anche nella proposta di legge che sarà in discussione nell’Assemblea sarda, viene previsto un passo ulteriore che preoccupa».

Di che cosa ha bisogno un malato terminale?

«Ho accompagnato molte persone nel momento finale e posso dire che hanno bisogno di amore e speranza. Non chiedono di anticipare la morte ma invocano una speranza con cui affrontarla. Ecco perché è importante parlare di reti comunitarie e di solidarietà per i malati terminali. Si tratta di un’idea cristiana - Gesù dice: “Ero malato e mi avete visitato” -, ma è anche un’idea laica. Benedetto XVI, nell’enciclica “Spe salvi”, ha lanciato un messaggio provocatorio: anche la sofferenza può essere un luogo di speranza. Ma questo è possibile solo con una compagnia. Per noi cristiani è un grande valore».

Quale legge sul fine vita sarebbe auspicabile?

«Non invochiamo una “legge cattolica”. Una norma è sempre il frutto di un compromesso e della necessità di ricomporre interessi, diritti e aspettative differenti. Pensiamo all’obiettivo e alla cultura che vogliamo sviluppare. Se sul fronte dell’assistenza tra Trentino e Sardegna c’è la differenza di cui parlavo prima vuol dire che esiste un problema di cui occuparsi. Questa è sicuramente una priorità».

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