Il Rapporto Investing in productivity growth di marzo 2024 del McKinsey Global Institute è impietoso: l’Italia presenta una crescita economica negativa nel periodo 1997-2022. Altre nazioni, classificate ad elevato reddito, non mostrano una sostanziale crescita (1%) ma, comunque, mostrano un segno positivo. L’Italia no. In quasi un quarto di secolo, il Belpaese mostra tutti i suoi limiti di visione politica, sociale, economica, finanziaria. Una Caporetto dell’intero Sistema Italia: quello educazionale (scuole e Università), quello imprenditoriale, quello politico (nazionale e locale), quello di controllo e critica (media). Mancanza di visione, di capacità decisionali, di cultura politica. Tanto basta per agitare il sonno notturno ed i pensieri diurni dell’economista Luca Solari, ordinario all’Università Statale di Milano.

Professore, in un recente post Lei ha parlato di fallimento del sistema Italia e di mancata crescita. Ci sono delle leve per invertire la tendenza attuale?

«Il divario di produttività è il vero problema del nostro Paese. Oggi lo stiamo vivendo anche in termini di ricadute sulla ricchezza delle persone. Le leve partono, innanzitutto, dalle scelte: dobbiamo capire che l'investimento pubblico deve andare in quelle aree dove c'è maggiore possibilità di crescita. Questo vorrà dire sacrifici ma sacrifici che devono diventare selettivi. Dobbiamo chiedere al sistema pubblico che ci sia una garanzia di un investimento con obiettivi di crescita della produttività in qualsiasi forma di sostegno. Non possiamo più permetterci di investire solamente sulla manutenzione dei patrimoni come accaduto, ad esempio, con l'iniziativa del superbonus».

Ritiene che la politica sia l'unica responsabile di questo fallimento?

«No, la politica fa parte di un sistema che è articolato in tanti gruppi di interesse, in tante coalizioni, spesso non visibili del tutto perché il nostro è un Paese che non ha mai fatto emergere il fenomeno del lobbismo; purtroppo, nelle decisioni pubbliche si presentano questi equilibri contrapposti. L’Italia è in grado di risollevarsi solo quando arriva alla crisi più profonda. Queste componenti non vedono l'interesse generale e si focalizzano troppo sulla difesa di quello specifico. Abbiamo bisogno di una trasformazione culturale profonda in tutte le nostre élite, manageriali e politiche».

Qualche giorno fa la proposta di maggioranza sull’autonomia differenziata è diventata legge: di fatto rappresenta l'abbandono del regionalismo che ha caratterizzato la nostra Repubblica. Ci sarà un vantaggio per tutti o solamente per le regioni più forti? La Sardegna?

«Il problema non è nelle scelte che riguardano la configurazione istituzionale. Nel nostro Paese non riusciamo a separare queste decisioni dalle considerazioni di vantaggio elettorale. Il fatto che il nostro sia un sistema fortemente differenziato su basi geografica è oggettivo. Il fatto che ci siano delle questioni irrisolte legate ai differenziali di crescita e di produttività è un dato di fatto. L'idea di sganciare sempre di più chi, con risorse, sa prendere decisioni da chi non ha dimostrato oggettivamente di poter prendere decisioni che vanno in una direzione di sviluppo sembra una risposta più che a delle esigenze di cambiamento nazionale a delle pretese di tipo elettorale. La Sardegna, che già è una regione a forte autonomia, potrà trarre vantaggi, ma è necessaria anche una responsabilizzazione locale per le decisioni e, soprattutto, un patto trasversale tra forze politiche su un progetto regionale. Se guardo la mia regione, il Trentino-Alto Adige, al di là di tutti i difetti che può avere avuto nell'alternanza, trovo un patto trasversale di cittadinanza, cioè una visione di insieme e poi piccole differenze a seconda di chi governerà».

Questo è il nodo, il grande problema della politica sarda. Uno sguardo ora alla politica estera: una Europa più forte aiuterà l'Italia ad essere più autorevole?

«Oggi non ha senso discutere l'assetto europeo, sarebbe una follia. È necessario, però, un assetto centrale più forte, più autonomo che ci consenta di superare una situazione che è troppo ibrida tra esigenze collettive e specifiche. Anche qui, come in Italia, servirebbero delle élite che abbiano una visione, come quella che ha portato all'Europa. Sono ormai quasi 70 anni che ci dobbiamo accontentare di persone che possiedono una visione a breve termine. L'Italia ne ha bisogno ma forse ne avrebbe meno necessità se, una volta per tutte, decidesse di definire un proprio cammino dentro una cornice europea e non semplicemente rappresentare piccole esigenze legate ai gruppi di riferimento di chi in quel momento governa».

Lei conosce molto bene gli Stati Uniti dove ha vissuto e lavorato. Cosa prevede per le prossime elezioni? Cosa sta succedendo in Paesi vicini a noi, come in Francia con l'avanzata dell'estrema destra o con la vittoria dei Labour in Inghilterra? Cambieranno gli assetti mondiali?

«Si sta delineando la probabile vittoria di Trump. Il partito democratico deve decidere tra due opzioni: perdere con Biden, candidato debole, oppure perdere con un candidato che dia un segnale, un po’ come hanno fatto i Labour scegliendo una persona atipica rispetto alla tradizione, che ha di fatto espulso dal partito James Corbyn che è stato uno dei segretari storici. Labour nel Regno Unito e l’ultradestra in Francia, insieme ai dati di affluenza al voto, ci segnalano una disaffezione spaventosa alla politica e in questo momento io credo che ci sia una generale percezione di vuoto politico, cioè non ci sono più persone che hanno una visione del futuro e l’Europa, il Mondo, ha bisogno di una prospettiva di futuro forte. In questo momento ci stiamo in qualche modo avviluppando in una spirale che porta verso una depressione complessiva».

Simona De Francisci

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