Secondo l'Ocse, l'organizzazione che raggruppa 35 dei Paesi più sviluppati al mondo, l'Italia condivide con l'Argentina e la Turchia il segno negativo nelle previsioni di crescita del Pil per il 2019. Previsioni che s'inseriscono all'interno di un'aspettativa generale di leggera contrazione della crescita a livello mondiale (dal 3,6 del 2018 al 3,3% di quest'anno), più marcata per l'Eurozona (dall'1,8 all'1%) e che non risparmia neppure la locomotiva tedesca (dall'1,4 allo 0,7%). Per il nostro Paese, il passo indietro va dal +0,8% del 2018 al -0,2% di quest'anno, con una decurtazione secca dell'1%.

Quali sono i motivi principali dell'inversione del ciclo mondiale? Ci sono motivazioni di carattere generale e altre specifiche (idiosincratiche) dei singoli paesi. Secondo l'Ocse, le cause principali sono date dalle incertezze politiche (tra cui le prossime elezioni in Europa, la Brexit, i populismi di varia natura in entrambe le sponde dell'Atlantico), dalle perduranti tensioni commerciali a livello internazionale (la guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina, che nel solo mese di febbraio ha fatto crollare le esportazioni cinesi del 20,7% e le importazioni del 5,2%) e da un'ulteriore erosione del clima di fiducia a livello globale delle imprese e dei consumatori, che pesa negativamente sugli investimenti delle imprese e sulle prospettive commerciali.

Un altro elemento negativo non citato dall'Ocse, ma enfatizzato nei giorni scorsi dallo stesso Draghi, è costituito dall'utilizzo del cosiddetto quantitative easing.

Draghi si è lamentato del fatto che la liquidità totale immessa nel sistema economico da quello che la stampa ha chiamato "bazooka", circa 2.400 miliardi di euro, invece di andare a finire alle banche europee per essere trasformata in maggiori prestiti a famiglie e imprese, è finita invece per il 90% in mano a banche e fondi d'investimento non dell'area dell'euro, situate in Danimarca, Giappone, Norvegia, Svezia, Svizzera, Stati Uniti e Regno Unito. Di fatto, Draghi ha così ammesso un mezzo fallimento della politica del Qe.

Poi ci sono i fattori specifici o idiosincratici di ciascun paese che stanno bloccando la crescita europea e dell'Italia in particolare. L'essere in compagnia di Argentina (-1,5% del Pil nel 2019) e Turchia (-1,8%) a condividere la congiuntura di decrescita del reddito segnala per tutti e tre questi Paesi l'esistenza di fattori frenanti specifici per ciascuno di essi.

Quali di queste politiche riguardano in particolare il governo italiano? Il premier Conte sostiene di essere consapevole della congiuntura economica sfavorevole e per contrastarla suggerisce di "puntare su export e sostegno alla domanda interna". Tuttavia, non è facile aumentare l'export in un contesto globale di ridimensionamento dell'intero commercio internazionale.

Per quanto riguarda la domanda interna, sarebbe necessario spostare l'attenzione dai consumi (reddito di cittadinanza e quota 100) verso gli investimenti, l'emblema dei quali oggi è costituito dalla Tav.

Al riguardo, esiste uno studio riservato Ue di cui giovedì scorso ha dato notizia il Tg de La7, nel quale si sostiene con un'accurata analisi costi-benefici la convenienza dell'opera. L'analisi è firmata da vari ricercatori europei, tra cui anche la società milanese di cui è presidente il prof. Marco Ponti, che ha firmato anche l'analisi costi-benefici commissionata dal ministro dei trasporti Danilo Toninelli, dove invece si sostiene il contrario. Il documento, che si basa su dati aggiornati agli ultimi scenari macroeconomici e di trasporto, valuta che al 2030 si possa ottenere un risparmio di tempo del 30% per i passeggeri e del 44% per le merci. Inoltre, lo studio valuta che nei prossimi dieci anni, per ogni miliardo investito nel cantiere si potranno creare 15 mila posti di lavoro, senza contare l'indotto.

Infine, fra tutti i potenziali corridoi Ovest-Est, quello Mediterraneo di cui fa parte la Tav è quello che creerà più posti di lavoro: 153 mila al 2030 fra trasporti, turismo e sviluppo di aziende per nuovi mercati nei Paesi interessati (Francia, Italia, Spagna e Portogallo), senza contare l'occupazione diretta creata dal cantiere Tav.

Beniamino Moro

(Docente di Economia Politica - Università di Cagliari)
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