Se qualcuno vi ha detto che avete un innato senso dell'orientamento lasciatelo perdere. E soprattutto non sperimentatelo ai confini dell'aldilà. A due passi dalle miniere di Montevecchio, sul crinale di Ingurtosu, nell'antica terra occupata dall'Eni con editto di Stato, devastata da incalliti predoni che hanno svuotato le ricche viscere della terra. Il paesaggio ora vive di luce riflessa, quella del Creato, nonostante le ferite profonde, visibili da terra, dal mare e dal cielo. Le ha lasciate indelebili l'Ente petrolifero in terra di Sardegna. Inutile portarsi una qualsiasi bussola, a Montevecchio, così come a Ingurtosu, la terra di piombo e zinco stravolgerà ogni certezza. E dopo un'infinità di tornanti a due passi dal cielo comincerete a pensare di esservi persi in un paradiso incontaminato, dove il verde non è il colore dominante. È il colore. Lentischio schietto e deciso, mirto dolce e rotondo, ginepro austero e imperioso.

Crolla la civiltà mineraria

Qui, cuore e anima della più antica civiltà delle miniere, si è consumata una delle più nefaste scorribande economiche, sociali e ambientali di cui la Sardegna ha memoria. Oggi l'unico sguardo inquieto e curioso è quello delle arrampicatrici indefesse, capre che dominano le scoscese viscere della terra ferita a colpi di fornelli e gallerie.

In questi prosceni nascosti ai più, il tempo corrode tutto, l'ignavia è come la ruggine della storia. L'incedere del degrado nel cuore di questa civiltà è come un martello pneumatico sempre in funzione. Se il ritmo del martellamento sarà incessante Montevecchio e Ingurtosu tra poco non ci saranno più. Lo stesso sarà per gli altri villaggi, da Monteponi a San Giovanni nell'antica Iglesias, da Masua a Buggerru. A Naracauli, nella porta d'ingresso di Ingurtosu, la laveria mineraria, esempio di rara perizia architettonica e tecnologica, è franata con l'incedere degli anni. Crolla tutto. Crollano i villaggi, crollano gli alberghi dei minatori, franano i ponti, le strade non accettano più nemmeno i suv e i corsi d'acqua impetuosi d'inverno hanno riconquistato i loro spazi. È salvo il Castello d'Ingurtosu, ma solo le ragnatele del tempo passato possono goderselo.

Il fiume rosso sulle dune

A due passi Piscinas, le Dune, un oceano di sabbia incontaminata contesa tra pochi turisti d'estate e qualche galeotto della colonia penale di Stato più esclusiva del mondo. Del resto solo in Sardegna si poteva pensare di occupare migliaia di ettari in un paradiso terrestre per ospitare delinquenti. Il viottolo d'acqua che sfocia a mare è rosso amaranto. Non è un miracolo. Sono i metalli pesanti che scorrono come sangue che fuoriesce dalle ferite mai ricucite nella terra di miniera. L'Eni del resto ha svuotato i ricchi filoni di piombo, zinco e argento e, nella fuga, ha lasciato aperti i copiosi rubinetti dell'inquinamento.

A Montevecchio, poco più in là, un modesto sussulto d'accoglienza è morto sul nascere. Il cartello che si staglia all'ingresso della vecchia Miniera, ex Eni, ora Igea, società in liquidazione della Regione sarda, è più un invito ad andar via che a trattenersi. Sbarra militare per segnalare che lì non si passa. Il villaggio di Piccalinna, con le sue fogge architettoniche pregiate e fiabesche, muore tra gli sguardi silenti e in lontananza di profani visitatori.

Un patrimonio immenso a cui l'Eni avrebbe dovuto dare riconversione turistica e ambientale, un patrimonio di gallerie, discenderie, trenini e funivie. Un'imponente disneyland mineraria, il fascino dell'avventura in un ambiente esclusivo e segreto. Questa storia, immensa e infinita, nel silenzio degli errori commessi nel passato e nell'ignavia del presente, scompare, mattone dopo mattone, villaggio dopo villaggio. Scompaiono senza colpo ferire diecimila posti letto, posizionati laddove solo le aquile osavano arrivare. E poi quelle immense discariche, dighe infinite di polveri fattesi fango, figlie di quella flottazione mineraria, procedura tecnologicamente indispensabile per separare i minerali, per estrarre piombo, zinco e anche molto argento.

Nei tempi andati quella separazione tra pietra e metalli non era avanzatissima e alla fine erano più i metalli che si lasciavano nei fanghi di scarto che quelli che si riuscivano ad estrarre. L'Eni si è guardato bene dall'occuparsi di ripristino ambientale e mai ha pensato a quel grande potenziale racchiuso in quelle montagne di fango. Inquinanti da una parte e ricche di minerali dall'altra.

La cerimonia e l'oro

A scoprirlo, però, non è l'Eni. Anche se ci mette lo zampino. Alla fine degli anni '80 la magnificenza dell'Ente di Stato in pompa magna, nella sala dell'affresco di Aligi Sassu, dedicato alla vita di miniera, a Monteponi, premia i veterani dell'ente di Stato. Medaglietta ricordo per chi ha compiuto i 25 anni di sottosuolo. L'Eni affida il cerimoniale al presidente dell'Agip Cool, tale Marco Vincenzo Jorio. I dirigenti dell'Ente di Stato non parlano, leggono. In quelle otto cartelle di encomi l'inviato in terra sarda, scandisce numeri e prospettive. Parla di Pb e Zn, sigle che la chimica aveva insegnato a riconoscere in terra e in ogni luogo. Piombo e zinco, in terra di miniera. L'incedere della lettura e dell'ascolto, poi, però, si fanno meno scorrevoli sino a pronunciare una sigla sconosciuta in questa terra: Au, oro.

Jorio la pronuncia associandola alle funamboliche prospettive estrattive che l'Eni starebbe vagliando in lungo e in largo per la Sardegna. In pochi percepiscono che dietro quell'ammissione velata, in una sigla pronunciata a cuor leggero, ci fosse l'animo aureo del petroliere trasformatosi in cercatore d'oro stile Klondike. Usciranno le mappe, dall'Anglona a Furtei. Oro colloidale, c'è ma non si vede, dicono gli esperti. Servono processi chimici a base di cianuro per sfornare lingotti. L'Eni lascia perdere. Preferisce il petrolio e non ama la Sardegna.

Il filone australiano

Il dossier, però, lo trasferiscono, chissà come, agli australiani, provetti cercatori d'oro. I conviventi dei canguri fanno nascere in terra sarda la Sardinia Gold Mining. Senza molti scrupoli e con gli agganci giusti nel palazzo della Regione devastano il territorio di Furtei. Laghi di cianuro ovunque. Inquinamento ambientale senza precedenti. Dopo qualche lingotto e qualche anno scappano anche gli australiani, dileguati. La Regione non fa niente per recuperare soldi e ambiente. I processi sono in contumacia. Il danno ambientale tutto a carico dei sardi. Dal bilancio della Regione si stanziano oltre 20 milioni di euro per tentare di ricoprire le ferite al territorio divelto dai canguriman.

Peccato che qualche anno dopo riaffiori in Sardegna proprio uno degli uomini chiave di quella devastazione di Furtei, tale John Christopher Morris. Questa volta approda come inviato della King Rose Mining. Sempre australiana, quotata in borsa, sempre alla ricerca di roba da estrarre. Qualcuno gli ha suggerito di mettere il naso in quelle immense distese di polveri lasciate alla mercé di vento e acqua dopo la fuga dell'Eni. Tra il 2009 e il 2010 gli australiani arrivano in forze a Campo Pisano dove fanno il quartier generale. Si spostano in lungo e in largo, da Monteponi a San Giovanni, da Masua a Buggerru, da Ingurtosu a Montevecchio. Dal secondo giorno, raccontano le scritture di cantiere prese in prestito dagli accompagnatori locali, fanno perforazioni in undici aree contenenti oltre 20 dighe di sterili.

Il tesoro e la fuga

Finiscono la campagna di perforazioni e scrivono: in quelle montagne di sterili di miniera si stimano 89,2 milioni di tonnellate di materiale con tenori di 2,07% di zinco e 0,56% di piombo. Traducono: quei cumuli di polvere contengono oltre 1,8 milioni di tonnellate di zinco e quasi 500.000 tonnellate di piombo. Morris nemmeno saluta. Corre a Londra e deposita il tutto alla Borsa Mondiale dei Metalli. Piano Sarnic, blindato nelle segrete stanze degli azionisti australiani. Lo riproduciamo per stralci. Dentro quelle montagne di fanghi, secondo le stime australiane, ci sarebbero quantitativi di piombo e zinco per oltre 3 miliardi e mezzo di euro, stimati all'epoca dell'operazione. E oggi i valori potrebbero essere anche superiori. L'annuncio alla Borsa londinese fu esplicito: «Gli amministratori di King Rose Mining sono lieti di annunciare che l'azienda inizierà il lavoro di prefattibilità su un potenziale molto grande di sterili. Un progetto di ritrattamento di uno dei più grandi quartieri minerari d'Europa». Il progetto fa balzare le quotazioni della società in borsa. Morris che trattava con la Regione, come se avessero dimenticato il disastro di Furtei, viene scoperto e viste le vicende penali scappa verso altri lidi.

Le montagne grigie e striate segnate dai metalli strappati al sottosuolo della Sardegna restano lì, cariche di inquinamento e, nel contempo, di ricchezza. Tra canguri e cani a sei zampe tutti hanno fatto la loro parte, divelto l'ambiente, prelevato il maltolto, dal piombo all'oro e, poi, sono scappati. Sino alla fine hanno cercato di strappare alla terra di miniera soldi pubblici e affari d'ogni genere.

Mauro Pili

(Giornalista)
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