Raccontare la vita di un uomo di Chiesa, per di più in odore di santità come don Carlo Gnocchi (1902-1956) non è impresa semplice. Si rischia a ogni pagina di cadere nel racconto agiografico, di trasformare la vicenda umana in parabola e la persona in una sorta di santino monodimensionale.

Lo storico Edoardo Bressan, nel suo Don Carlo Gnocchi (Oltre edizioni, 2017, Euro 18,00, pp. 222), riesce a evitare queste insidie proponendoci una biografia solida, misurata, giustamente distaccata e altrettanto giustamente partecipe.

Don Gnocchi viene così ritratto a tutto tondo, non solo come sacerdote, "santo" al servizio degli ultimi e dei più deboli, ma prima di tutto come uomo. Un grande uomo e un grande italiano capace di vivere intensamente e completamente le vicende storiche della prima metà del Novecento. Soprattutto un uomo desideroso e capace di incidere, agendo in prima persona, nel tempo e nella società in cui si è trovato a vivere. Senza mai tirarsi indietro, senza voler essere protagonista a tutti i costi.

Bressan, attraverso documenti e testimonianze di chi ha conosciuto in prima persona il sacerdote lombardo ci racconta allora le origini di don Carlo, la scelta del sacerdozio, l’impegno con i giovani e la volontà di stare vicino ai suoi ragazzi negli anni del fascismo, offrendo a quella gioventù ideali, modelli e progetti di vita alternativi a quelli del regime fascista.

Poi incontriamo nel libro la scelta di diventare cappellano militare e di partecipare alla Seconda guerra mondiale. E qui don Gnocchi affronta la prova che gli cambia la vita e che dà un nuovo senso alla sua esistenza e alla sua scelta di uomo di Chiesa. Si ritrova in Russia, con gli alpini, con cui condivide l’avanzata e soprattutto la terribile ritirata nell’inverno russo. È accanto a loro mentre si disperano e muoiono. In Italia partecipa alla Resistenza ma soprattutto ritorna dall’esperienza di guerra come un sopravvissuto. Un sopravvissuto che però non ha perso la speranza nel futuro e nel genere umano ma che sente di dovere qualcosa a quei commilitoni che non ce l’hanno fatta. Sente di essere tornato a casa non per piangere i morti, ma per continuare ad agire e sollevare i vivi dalle loro sofferenze.

Qui si apre la fase forse più conosciuta della vita del sacerdote, con il suo impegno a favore di orfani, mutilati e poi poliomielitici. In quegli anni don Gnocchi precorre i tempi, comprende come alleviare la sofferenza può essere un modo per aiutare non solo le singole persone ma per indicare un futuro più generoso e "comunitario" alla nostra nazione, uscita così martoriata da vent’anni di fascismo e dalla Seconda guerra mondiale.

La Fondazione che porta il suo nome, oggi punto di riferimento a livello internazionale nell’assistenza a malati e anziani, nasce così non solo come presidio medico e infermieristico ma come modello di carità e convivenza umana. Estremo esempio di civiltà fu anche l’ultima scelta di don Carlo, quella di donare le sue cornee a due ragazzini ciechi. Lo fece in un’epoca, gli anni Cinquanta, dove non esisteva ancora la consapevolezza del dono del trapianto e persistevano tante perplessità e dubbi su queste pratiche. Anche in questo gesto finale fu un precursore, un uomo capace di incidere sulle coscienze del suo tempo e di non tirarsi mai indietro.

Roberto Roveda

La copertina del libro
La copertina del libro
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