La triste vicenda del bus con a bordo cinquantuno piccoli studenti salvati dal coraggio di due impavidi compagnetti ancora formalmente stranieri, Ramy e Adam, ha commosso l’intero Paese incoraggiando i genitori dei piccoli eroi a chiedere per i loro figli il riconoscimento della cittadinanza italiana.

Come da copione il governo giallo verde, nelle persone dei suoi tre esponenti di vertice, nonostante una iniziale timidissima apertura in tal senso, non ha tardato, per un verso, a trincerarsi dietro quella che appare come la solita "clausola verbale di salvaguardia" (per così dire), ossia la mancanza, nel corpo del contratto di governo, di un impegno diretto alla modifica della Legge 91 del 1992 e, per l’altro verso, ad esprimersi per bocca di Salvini, piuttosto duramente, ed in maniera oserei dire a dir poco antipatica siccome riferita ad un minore, affermando che se Ramy vuole lo ius soli, potrà realizzarlo "quando verrà eletto parlamentare", negando così in radice ed in modo categorico l’iniziale atteggiamento possibilista.

Posto che la richiesta dei genitori di Ramy e Adam non era all’evidenza finalizzata al conseguimento di una modifica della legge anzidetta ma solo al conseguimento del riconoscimento dei suoi effetti in forma anticipata a favore dei bimbi-eroi in considerazione della particolare circostanza che l'ha ispirata (la richiesta si intende), e posto che, pertanto, la valutazione sulla possibilità di derogare a quella stessa legge non determinerebbe, come di fatto non determina, alcuna violazione del tanto osannato contratto di governo trattandosi appunto di caso eccezionale, tuttavia, la vicenda di per sé considerata e la conseguente reazione del governo offrono uno spunto importante per una riflessione sul tema che prenda il suo inizio da alcune domande: la scelta di prediligere lo ius sanguinis rispetto allo ius soli è davvero solo legata a sentimenti nazionalistici? È davvero utile avere all’interno del Paese soggetti stranieri soggiornanti ma che, non essendo cittadini a tutti gli effetti, non hanno la possibilità di sentirsi parte del tessuto sociale in cui vivono? Perché il Governo italiano ha così paura dello ius soli e/o di qualsiasi altro modo di acquisto della cittadinanza che non sia direttamente riconnesso al sangue?

Ebbene, preliminarmente a qualsivoglia tentativo di rispondere agli interrogativi proposti, non sarà forse superfluo precisare brevemente, siccome utile ai fini argomentativi, che mentre per il principio dello ius sanguinis la cittadinanza viene trasmessa di padre in figlio, per il principio dello ius soli invece (attualmente non vigente nel nostro ordinamento salvo casi rarissimi direttamente riconnessi ad esempio alla circostanza di essere apolidi, o figli di ignoti nati nel territorio della Repubblica), può essere acquisita sic et simpliciter per il solo ed unico fatto di essere nati sul territorio dello stato. E, allo stesso modo, non sarà altresì superfluo precisare che in base alla legge vigente, che nei suoi contenuti rispecchia la prima legge in argomento risalente all’incirca all’anno 1861, i figli dei cittadini stranieri, i quali nascano in Italia e quivi risiedano in maniera continuativa fino al compimento del diciottesimo anno di età, possono, entro un anno da quel genetliaco, e dietro versamento di un apposito contributo, dichiarare di voler acquisire la cittadinanza italiana.

Spontaneo allora chiedersi cosa si nasconda dietro questa scelta apparentemente solo nazionalistica consolidata ed inossidabile e se oggi conservi la sua validità considerati i mutamenti del tessuto sociale. La risposta non può che essere, a mio modesto modo di vedere, negativa.

Intanto, perché, contrariamente a quanto si sarebbe indotti a ritenere, siffatta scelta camuffava, come di fatto camuffa, con un oramai anacronistico (e male interpretato alla luce dei cambiamenti sociali intervenuti nel corso degli anni) sentimento nazionalistico, una esigenza di carattere prettamente economico siccome storicamente, il favore riconosciuto al principio dello ius sanguinis era direttamente correlato alla necessità di non perdere il legame con i nostri emigrati all’estero i quali, attraverso il sistema delle rimesse, offrivano un apporto importante all’economia del paese.

Quindi, perché innegabilmente, il rafforzamento del principio dello ius sanguinis realizzato attraverso la riforma del 1992, aveva, come di fatto ha, il chiaro e preminente obiettivo di rendere sempre più incisiva nei confronti degli equilibri politici nazionali la funzione dei nostri connazionali emigrati siccome agli stessi è stato pienamente riconosciuto il diritto di nominare i loro rappresentanti ed eleggere senatori e deputati.

Inoltre, perché questo era il solo modo attraverso il quale raggiungere l’obiettivo (pienamente perseguito direi) di sottolineare la disparità tra i diritti politici ampiamente riconosciuti ai discendenti degli italiani all’estero e i diritti non riconosciuti agli immigrati residenti in Italia: disparità senz’altro utile a rappresentare un freno alle correnti migratorie in gran parte provenienti dall’Africa, ma dannosa sul piano politico ed economico per il Paese siccome gli immigrati, una volta cittadini a tutti gli effetti, rappresenterebbero potenziali contribuenti.

Infine, perché il concetto stesso di cittadinanza, ed in particolare di ius soli, è temutissimo dai nostri governi di matrice conservatrice siccome, per un verso, direttamente riconnesso alla gestione delle politiche sulla immigrazione e, per altro verso, sottintendente l’esistenza di un apparato amministrativo perfettamente funzionante e preciso quale certamente non è quello italiano attuale del tutto impreparato a rispondere all’esigenza, sempre più imperante, di promuovere ed incoraggiare il percorso di fusione dello straniero con il paese ospite facendolo diventare parte del nuovo tessuto sociale.

La verità è che, purtroppo, la questione relativa all’immigrazione ha assunto una preminente connotazione politica divenendo unicamente strumento di propaganda ideologica. Personalmente, ritengo che argomenti tanto delicati siccome concernenti comunque esseri umani e loro diritti, non possano e non debbano costituire oggetto di strumentalizzazione politica di destra o di sinistra a seconda dell’orientamento sul punto, ma credo debbano formare oggetto semmai di politiche condivise da tutti i partiti e sempre volte alla tutela dei diritti di ogni essere umano. Allo stesso modo ritengo che sia necessario ricostruire una Destra forte e che occorra farlo, per così dire, in funzione dinamica, ossia adeguando i suoi storici valori buoni a quelle che sono le mutazioni sociali contemporanee di modo tale da essere in grado di interpretare pienamente ed efficacemente la società sulla quale intende incidere ed operare.

In questo senso, sarebbe più utile, secondo me, iniziare a riconsiderare l’idea dello ius culturae, ossia una modalità di acquisto della cittadinanza già prospettato in passato, ma lasciato cadere nel dimenticatoio, rivolta ai minori stranieri nati in Italia o che vi abbiano fatto ingresso prima del compimento del diciottesimo anno di età, i quali avrebbero diritto ad ottenere la cittadinanza italiana qualora avessero frequentato con continuità per almeno un quinquennio un percorso di formazione (scolastica e/o professionale) nel territorio nazionale.

In questo modo, ossia "fidelizzando" lo straniero al nuovo tessuto sociale e staccandolo così definitivamente dal suo Paese di provenienza, si garantirebbe la unica e vera integrazione utile al Paese.

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato - Nuoro)
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