Guerre e carenze energetiche. Cambiamento del clima, nuove migrazioni e crisi demografica. Materie prime e cibo da accaparrare prima che lo facciano altri. Sono queste le dinamiche a cui, nolenti o volenti, dovremmo abituarci? Siamo veramente entrati in una era della scarsità – di energia, di salute, di sicurezza – oppure è un fenomeno temporaneo da cui usciremo come guarimmo da altre crisi? Il trauma, cominciato con la pandemia e aggravato dalla guerra in Ucraina, è solo l’inizio di una fase storica segnata da ristrettezze, sacrifici, razionamenti e tagli su tutto?

Federico Rampini ci offre il suo punto di vista nel recente “Il lungo inverno” (Mondadori, 2022, pp. 240), un saggio che prova ad analizzare le dinamiche del nostro tempo senza farsi schiacciare dalla contingenza, ma provando a riflettere su eventi e processi alla luce della nostra storia.

A Federico Rampini chiediamo allora di spiegarci cosa intende nel suo libro quando parla, per l’epoca che stiamo vivendo, di “era della scarsità”:

«Ci sentiamo assediati da ogni sorta di penuria. Mancano l’energia e in certe zone del mondo anche l’acqua. Beni essenziali costano più cari. Troppe aziende lamentano di non trovare lavoratori. Sullo sfondo c’è la decrescita della popolazione che non risparmia la Cina. Con l’inflazione e il rialzo dei tassi diventa più rara e costosa la moneta. L’energia sembra un’emergenza recente, in realtà la crisi viene da molti anni di decisioni sbagliate. Putin ha dato la spallata finale a un edificio pronto a crollare. L’Europa si vantava di procedere a grandi passi verso un futuro pulitissimo, tutto basato sulle energie rinnovabili, senza vedere quel che stava facendo davvero. La penuria di moneta riconduce ancora ai fatidici anni Settanta del Novecento. Consumando meno, riducendo la domanda, interviene un altro genere di scarsità: è la recessione della nostra spesa. Anche questa è penuria fabbricata: dall’intervento delle banche centrali che cancella 14 anni di moneta abbondante».

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Ma siamo veramente entrati in un'era dominata dalla scarsità, un’età realmente peggiore di quelle che l'hanno preceduta?

«Dalla profezia (completamente errata) sulla fine dello sviluppo che fu l’ossessione degli anni Settanta, dovrebbe essersi insinuato fra noi un dubbio: che vedere dietro l’angolo l’Apocalisse imminente sia un tratto di civiltà decadenti. Già negli anni Settanta, una delle ragioni per cui sbagliammo a prevedere la fine dello sviluppo, fu la sottovalutazione dell’economia di mercato. Pochi anni dopo la pubblicazione del rapporto su I limiti dello sviluppo da parte del Club di Roma nel 1972, decollò il più grande sviluppo della storia umana, quello di Cina e India, che ha salvato dalla miseria due miliardi di persone. Eppure, gli apocalittici proseguono imperterriti e impuniti, non fanno mai autocritica sul passato e ci ripropongono nuovi scenari catastrofisti. Invece la dinamica della domanda e dell’offerta continua ad essere una forza potente per il cambiamento. Le scarsità ci inducono a correggere il tiro, ad aggiustare squilibri, a sperimentare, a esplorare strade nuove. L’auto elettrica e i pannelli fotovoltaici non sarebbero nati senza lo stimolo a innovare che venne dal caro-benzina e dalle ‘domeniche a piedi’ di cinquant’anni fa».

In questo momento di difficoltà è giusto invocare la presenza maggiore dello Stato oppure può essere deleterio?

«In Europa diverse opinioni pubbliche chiedono sempre più Stato. Gli aiuti erogati durante la pandemia sono stati un antipasto rispetto a tutto quel che viene richiesto ai governi per proteggerci dalle avversità. Uno Stato-mamma troppo invadente addormenta i riflessi vitali e non è efficiente: sono state proprio le scelte dei governi negli anni passati ad aver fabbricato questo disastro. L’Italia è il paese occidentale più vulnerabile alla tentazione statalista, per il suo debito pubblico già eccessivo; perché ha una burocrazia invadente e inetta; perché una parte della sua popolazione ha introiettato l’assistenzialismo come orizzonte di vita».  

Chi ha le "armi" migliori per uscire dall'attuale periodo di crisi? L'America? La Cina oppure l'Europa?

«I passaggi d’epoca, le grandi rotture storiche, si capiscono guardando a un triangolo fondamentale: energia, moneta, tecnologia (che include le armi). L’America domina ancora quel triangolo strategico. È l’unica superpotenza ad avere l’autosufficienza energetica, una moneta universale e, per adesso, anche una superiorità tecnologica. Vi si può aggiungere una demografia positiva, che distingue l’America dalla Cina e dall’Europa. La Cina ha degli handicap che tenta di superare, per esempio conquistandosi grazie all’ingenuità occidentale un monopolio sulle tecnologie verdi (pannelli solari, batterie elettriche). L’Europa arranca in ritardo. Ha le idee confuse, invischiate in dogmi e tabù. Ha più velleità che ambizioni. Ha il disarmo facile. E con il disarmo arriva la sottomissione. Il lungo inverno all’insegna di tante scarsità è anche inverno della ragione».    

Ma come si esce non tanto dalla crisi, ma da questo senso di Apocalisse incombente che pare avere preso l'Occidente?

«Lo supereremo se attingiamo alle qualità del nostro modello, non se ammiriamo chi ci odia. Il lungo inverno può preludere a una stagione di creatività, in cui troveremo risposte innovative ai nostri problemi energetici ed economici. Ma dobbiamo liberarci da un vezzo, da una moda che domina il discorso dei media e delle élite: il vezzo di descrivere il mondo sull’orlo del baratro, a un passo dal disastro ambientale, dalla fame di massa, da migrazioni incontrollabili. Per cominciare, studiamo la storia e la scienza. Molti degli allarmismi attuali sono il remake di false profezie che fecero proseliti nei secoli scorsi. Un approccio scientifico al cambiamento climatico ci consiglia di agire per rallentarlo nella misura del possibile, ma anche per mitigarne gli effetti e proteggerci. In quanto agli imperialismi aggressivi di potenze come la Russia e la Cina, la Turchia e l’Iran, bisogna aprire gli occhi e praticare il detto degli antichi romani: si vis pacem, para bellum. Se vogliamo la pace dobbiamo investire nella sicurezza».

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