Vestita di nero aveva il compito di porre fine alle sofferenze dei moribondi o dei malati terminali. Fino ai primi anni del Novecento era presente nella tradizione orale della Sardegna e ancora oggi perdura il mito sfuggente ed enigmatico. È “s’accabbadora”, una figura femminile che con un flebile gesto al confine tra sacralità e tabù, vita e morte, rispecchia le scelte di una eutanasia d’altri tempi, legalizzata, per porre fine a sofferenze, ormai estreme.

Sabato, l’immagine di questa donna varcherà, alle 18.30, i cancelli dell’Orto Giardino Mariposa de cardu attraverso il libro "Accabbadora, mito e realtà" di Aldo Cinus, Roberto Demontis, Augusto Marini e Mariano Staffa. Da sempre ci si domanda se questa, protetta dal silenzio all’interno delle antiche comunità sarde, sia mai realmente esistita. Anche se le anziane e gli anziani soprattutto dell’entroterra sardo nei loro racconti parlano di donne che si muovevano nell’oscurità per porre fine ad agonie lunghe e dolorose.

Il libro parla dunque di questa figura e nasce da un ritrovamento fatto dagli autori con la collaborazione di Gianfranco Tore, docente di Storia Moderna dell’Università di Cagliari degli strumenti utilizzati dall’Accabbadora. Al momento è il più completo e comprende: un rustico martello di olivastro, uno scalpello di legno, detto “sa misericordia”, un foglio di carta bollata con nove nomi di persona, una ventina di fogli di giornale ecclesiastico, un rosario, alcune marche da bollo degli anni 20 del Novecento e una moneta di rame, coeva. Francesca Melis

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