“Si è spenta la luce del mondo…”. Con queste parole uno dei più grandi scrittori cristiani del IV-V secolo, san Girolamo, commentò la notizia del saccheggio di Roma da parte dei Visigoti nel 410. La città non subiva invasioni da ben otto secoli: perciò fino ad allora aveva rappresentato l’emblema dell’invulnerabilità e dell’immortalità dello Stato romano. Per molti uomini del tempo, la sua caduta significò quindi la fine della civiltà e l’inizio della barbarie, tant’è che lo stesso Girolamo scrisse in quei giorni tragici per tutti coloro che riconoscevano in Roma l’emblema di tutto ciò in cui credevano: “È stato stroncato il capo dell’Impero romano, tutto il mondo è stato distrutto con la distruzione di una sola città”.

La fine dell’Impero romano, convenzionalmente fissata al 476 d.C. (anno in cui si fa cominciare il Medioevo), fu in realtà non un crollo improvviso, determinato da un singolo evento pur drammatico come il saccheggio di Roma da parte di orde di quelli che venivano chiamati genericamente barbari. Fu il risultato di un lungo processo di sgretolamento dello Stato romano che venne determinato da molti fattori. Lo storico Michael Kulikowski, professore di Storia antica alla Pennsylvania State University, nel suo recente saggio “Tragedia imperiale” (Hoepli editore, 2023, Euro 28, pp. 402 anche Ebook) pone l’accento sulle gravi responsabilità di chi deteneva il potere nell’impero: le dinastie regnanti, le classi aristocratiche, i militari. Racconta così il periodo che va dalla presa del potere di Costantino all’inizio del IV secolo all’arrivo dei Longobardi nella Penisola italiana (568 d.C.) come un’età dominata da intrighi di palazzo, conflitti religiosi e guerre, oltre a innumerevoli cambiamenti nelle strutture sociali, religiose e politiche.

Michael Kulikowski contesta quindi l’idea che Roma sia caduta a causa di invasioni esterne. Si concentra, invece, sulle scelte di coloro che vivevano all’interno dell’Impero, perché non fu un solo momento catastrofico a spezzarlo, ma un processo autodistruttivo strisciante, carsico. Dopo il regno di Costantino l’Impero romano dovette certamente fronteggiare la crescente minaccia dei barbari: i Germani, ma anche i nomadi delle steppe come gli Unni, sempre più di frequente violarono i suoi confini. Le regioni orientali dell’Impero, pur con difficoltà, riuscirono a fronteggiare il nemico, mentre la parte occidentale dell’Impero ingaggiò con gli aggressori una lotta per la sopravvivenza. Una lotta, però, destinata infine alla sconfitta. Come mai?

Sappiamo con certezza che gli attacchi del IV e V secolo furono diversi da quelli avvenuti in precedenza. Non furono più semplici incursioni a scopo di razzia, ma vere e proprie migrazioni di popoli contro le quali l’esercito romano si ritrovò impotente. Questa impotenza era conseguenza della profonda crisi che da almeno due secoli investiva i territori occidentali: guerre, carestie, epidemie e instabilità politica avevano portato allo spopolamento delle città, alla contrazione dei traffici commerciali, alla scomparsa della piccola proprietà a favore del latifondo, al crollo del sistema di produzione schiavistico. La maggior parte della popolazione viveva in povertà, oppressa da un apparato burocratico gigantesco e da un fiscalismo rapace.

Anche l’esercito, che per secoli aveva salvato Roma dalla rovina, non era più quello di un tempo. Sempre più cittadini romani sfuggivano all’arruolamento pagando un tributo o trovando rifugio nei territori oltre il confine dell’Impero, al sicuro dagli ufficiali reclutatori e anche dagli esattori delle tasse. Spina dorsale della macchina militare romana divennero anzi proprio i barbari e anche i comandanti militari che si ritrovarono a detenere il potere reale in Occidente erano di stirpe germanica.

A un certo punto, i barbari si resero conto che non avevano più bisogno di un imperatore per controllare le terre in cui si erano insediati. Nel 476, deposero Romolo Augustolo, l’imperatore d’Occidente, e rimandarono le insegne imperiali a Costantinopoli. Fu un gesto simbolico che calò il sipario su un Impero in cui non credevano più nemmeno gli stessi Romani.

La copertina
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