Le donne avrebbero voluto essere come lei, possedere il suo sguardo e il suo magnetismo, il portamento, anche solo il taglio di capelli. Gli uomini la desideravano e allo stesso tempo erano intimoriti dal suo fascino quasi sovrannaturale, da divinità capitata per caso sulla Terra. Il protagonista di “Per chi suona la campana” di Ernest Hemingway sognava di fare l’amore con lei, almeno una volta, per poi amarla per sempre. A partire dalla metà degli anni venti del Novecento, attraverso poco più di una quindicina di anni e una ventina di film di Hollywood, Greta Garbo è stata tutto questo e molto di più. Come scrive il giornalista Robert Gottlieb nel volume intitolato semplicemente “Garbo” (Il Castoro, 2023, euro 28, pp. 456) “tra il 1925 e il 1941 ovunque si guardi, la Garbo è nella mente, nel cuore e nei sogni della gente”. Riuscì, infatti, a penetrare nel subconscio mondiale, continuando a conservare un’aura irresistibile, quasi magica anche dopo il suo improvviso ritiro dalla ribalta cinematografica, a poco più di 35 anni.

Affascinante e nello stesso tempo schiva, innamorata della recitazione e contemporaneamente intollerante nei confronti delle regole dello star system di Hollywood, Greta Garbo ha sempre rappresentato un mistero per i suoi fan, gli appassionati di cinema, i critici e i giornalisti. Un mistero ingigantito dal distacco con cui la grande attrice svedese è parsa sempre rapportarsi con il mondo e le persone. Il libro di Gottlieb ha allora il pregio di provare ad accorciare le distanze con una attrice che già dopo una manciata di film veniva chiamata la Divina. L’autore, infatti, ci porta dentro ai film, dalla sua presentazione da parte della M-G-M come “vamp” – formula che lei detestava – fino ai picchi artistici di pellicole come “Margherita Gauthier” e “Ninotchka”. Ci fa toccare con mano quanta verità ci sia nelle parole di una grande critico letterario come Roland Barthes quando scrive: “La Garbo appartiene ancora a quel momento del cinema in cui la sola cattura del volto umano provocava nelle folle il massimo turbamento, in cui ci si perdeva letteralmente in un'immagine umana come in un filtro, in cui il viso costituiva una specie di stato assoluto della carne, che non si poteva raggiungere né abbandonare. [...] La Garbo offriva una specie di idea platonica della creatura [...] Il suo appellativo di Divina mirava indubbiamente a rendere, più che uno stato superlativo della bellezza, l'essenza della sua persona corporea, scesa da un cielo dove le cose sono formate e finite nella massima chiarezza”.

Soprattutto Gottlieb offre un racconto vivido e accurato della vita privata della Garbo, la racconta quasi in presa diretta, dando l’impressione di avere la possibilità di conoscerla di persona. Emerge quindi la Garbo quando ancora era una sconosciuta svedese di nome Greta Lovisa Gustafsson, nata da una famiglia povera in uno dei quartieri più popolari di Stoccolma. Emerge il racconto di una infanzia complicata, la mancanza di una adeguata educazione scolastica, il cinema come un’unica via per uscire dal ghetto di povertà a cui sembrava condannata per nascita. Una via lastricata di determinazione, testardaggine, ma anche solitudine, diffidenza, terrore di perdere improvvisamente tutto quanto era riuscita a conquistare. Solo capendo questa diffidenza per tutto ciò che le stava accanto e la costante paura che il successo le voltasse le spalle si può, forse, comprendere la lunga seconda parte della vita della Garbo, una seconda parte a cui il libro di Gottlieb dedica una enorme attenzione raccontando  il ritiro dalle scene, così come i ripetuti tentativi di farle cambiare idea, fino a narrare la sua vita a New York dopo il ritiro – “un’eremita in città” –, e quella in Europa, tra i Rothschild e uomini come Onassis e Churchill.

Ne esce così il ritratto di una dea dello schermo, una dea che forse ha avuto come unica epigona Marilyn Monroe. E nello stesso tempo l’istantanea – necessariamente sfocata, data la riluttanza della Garbo a mostrare il suo vero volto - di una donna sola, che non si è forse mai sentita del tutto all’altezza del ruolo che la sorte le aveva assegnato.

La copertina
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