Domani, 21 marzo, nel mondo messo in ginocchio dal coronavirus, sarà primavera, «la stagione che ci mostra l'espressione più rigogliosa della natura e per farlo si appella a forze antiche: rinascita, vita, desiderio». Al professor Alessandro Vanoli, esperto di storia mediterranea, bastano poche parole per raccontare la "Primavera - La stagione inquieta" (Il Mulino, 280 pagine, 16 euro) che si riflette nelle «feste che parlano di vita che rinasce e luce che ritorna: dai greci agli ebrei, sino alla Pasqua dei cristiani. Ma è anche la stagione dell'azione. Per secoli gli eserciti hanno atteso il caldo desiderando il sangue». Almeno un tempo era così.

Un tempo le quattro stagioni erano scandite in modo lineare, mentre ora si passa dal caldo al freddo e viceversa: che cosa sta succedendo?

«Francamente non ne ho idea. So che questa convinzione delle quattro stagioni così ben scandite, è più una proiezione del nostro immaginario che una condizione reale. Da sempre: la primavera (come l'autunno) è per sua natura incerta. Per i meteorologi le stagioni sarebbero due: quella fredda che va da ottobre a marzo e quella calda più o meno da aprile a settembre. E il passaggio dall'una all'altra avviene senza un confine, tra periodi di freddo e di caldo. Con il cambiamento climatico aumentano irregolarità e fenomeni estremi. Molto sole alternato a molta pioggia».

Flora, Demetra, Proserpina, figure classiche. Che cosa ha cambiato la poetica di questa stagione?

«La primavera trascina da sempre immagini legate alla rinascita, all'esplosione della natura, oltre che alla giovinezza e all'amore. Oggi la differenza è legata alla nostra progressiva distanza dalla natura. Processo antico, intendiamoci: legato allo sviluppo della scienza e della tecnica, oggi accelerato dalla pervasiva e massiccia azione dell'uomo sull'ambiente».

La primavera dei cristiani coincide con la Pasqua: la resurrezione di Gesù come resurrezione del creato?

«In parte è sicuramente così. Anche se nella Pasqua confluisce una serie di tradizioni complesse. La pasqua ebraica, Pesach, con si commemorava la fuga dall'Egitto del popolo di Israele. Era per questa festa che Gesù si trovava a Gerusalemme nei giorni che precedettero la sua morte. Ed è dunque nella sovrapposizione delle religioni che si celebra la vittoria sulla morte e il rinnovamento della vita. Ovviamente, data la collocazione stagionale, ci sono le feste agrarie greche e romane. Ma è normale ed è anche un importante senso dei riti: quello di metterci in contatto con un passato profondo e stratificato».

Maggio è il mese mariano e il mese in cui si celebra la festa dei lavoratori: come si armonizzano queste due ricorrenze?

«Le feste stagionali attraggono sempre numerosi significati. Talvolta questo avviene inconsapevolmente, talvolta no. Tutti hanno tentato di colonizzare maggio: al principio vi sono feste pagane e popolari legate al rinnovamento della natura. A partire dal Cinquecento, l'opera consapevole della Chiesa impone, poco alla volta, l'importanza della figura di Maria (a cominciare dal rosario) per giungere alla fine del Seicento quando diventa un mese dedicato alla Vergine. E poi la Prima internazionale, nel 1889, ha scelto il primo maggio come data per una grande manifestazione operaia, consapevole di collocarsi nel solco dei grandi culti agrari antichi».

I poeti hanno cantato la primavera madre di sogni e rapimenti d'amore. È ancora così?

«Il mio cuore romantico mi dice sì. Si tratta di una pulsione che ha a che fare con la giovinezza e il rinnovamento».

Per gli antichi la natura era una divinità: Noi che valore gli attribuiamo?

«Dobbiamo imparare da capo. Abbiamo passato secoli ad allontanarci dalla natura, attraverso la scienza e la tecnica, studiandola come se non ci appartenesse. Ora ne sentiamo nostalgia e ricerchiamo un rapporto con essa. Non dobbiamo metterci a venerare gli alberi, ma tornare a sentire quanto siano parte di noi, sarebbe un passo avanti».

Francesco Mannoni

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