Negli ultimi vent'anni la globalizzazione ha cambiato il mondo. Ha contribuito, per esempio, a far uscire dalla povertà più estrema circa un miliardo e mezzo di persone. Allo stesso tempo, soprattutto in Occidente, ha fatto aumentare le diseguaglianze e creato nuove sacche di emarginazione e di difficoltà sociale.

Ne sono nate resistenze contro la globalizzazione, paure, richieste di nuove sicurezze, di certezze, di muri di protezione. Insomma il mondo globale è in crisi, una crisi profonda soprattutto nel nostro Occidente che pure la globalizzazione l'ha creata e ha contribuito più di tutti a diffonderla. E questa crisi spinge il vento dei populismi, indebolisce le democrazie, aumenta le divisioni e le contrapposizioni evidenziando come gli strumenti tradizionali di interpretazione dei fenomeni e di controllo siano oramai smussati, antiquati di fronte al nuovo che avanza.

Urgono, quindi, nuove strategie in modo da ridisegnare la convivenza nel mondo globale e governare i tempi in cui ci troviamo a vivere.

È questo il messaggio che percorre il breve, ma denso saggio "La globalizzazione difficile" (Mondadori Università, 2018, pp. 154) scritto da Mario Giro, esperto di questioni internazionali e viceministro degli esteri nel governo Gentiloni.

Il sottotitolo del libro parla della nostra epoca come del "tempo delle emozioni". Ma perché la nostra epoca può essere definita in questo modo? Lo chiediamo proprio a Mario Giro:

"Prima di tutto bisogna chiarire che ho cercato di parlare di globalizzazione non soltanto dal punto di vista economico, ma anche da quello sociale e antropologico. Dal punto di vista umano, insomma. Da questo punto di vista vediamo che ci sono degli effetti della globalizzazione che sono 'emozionali' e sentimentali nel senso che mettono in moto all'interno della società emozioni diverse".

Quali, per esempio?

"Qui da noi il senso di declino dell'Occidente, per dirne una, con conseguente rabbia, frustrazione, mentre invece altre popolazioni si sentono al centro del mondo, come accade in Cina. C'è uno spaesamento nella nostra società, una percezione che è magari scollegata dalla realtà ma che crea una rabbia e un senso di frustrazione che sono reali e vanno tenuti in considerazione. Rabbia, paura, frustrazione spiegano quindi molto di quello che sta succedendo nel mondo occidentale, ma anche nel mondo arabo. Nel mio libro, allora, provo ad approcciare il tema della globalizzazione cercando di spiegare come le società reagiscono al loro interno e cercano soluzioni, soprattutto quando i governi sono o appaiono impotenti".

Ma che tipo di soluzioni emergono all'interno delle società?

"Alcune società trovano soluzioni abnormi come possono essere lo jihadismo. In società dove si è persa ogni illusione di ricerca di giustizia e uguaglianza i giovani non trovano altra via che l'avventura della jihad. Un'altra risposta sono le migrazioni che sono non solo un dato economico, ma anche una scelta umana. I giovani di determinate zone del mondo si spostano perché vogliono il loro 'pezzo' di globalizzazione, la loro parte".

Nel suo libro la globalizzazione è presentata come un fenomeno destinato a perdurare. Noi ne percepiamo e ne raccontiamo spesso i lati negati. Vi sono degli aspetti positivi?

"È un fenomeno che ha rimesso in moto le economie di molte parti del mondo che prima erano bloccate. Soprattutto in Africa e Asia e anche America Latina sono nate nuove opportunità. Di contrasto le società ricche, abituate al benessere, hanno accusato dei vuoti. Il grande problema è che la globalizzazione ha promesso a tutti di stare meglio ma non è così".

Prima abbiamo parlato delle risposte abnormi ai problemi della globalizzazione. Ma come possono rispondere le società senza cadere negli eccessi?

"Per uscire dalla logica attuale della globalizzazione bisogna uscire dalla logica del mercato. Se ne può uscire con modalità 'arrabbiate' come fanno alcuni che tornano a vivere in campagna e rifiutano le logiche globalizzate. Oppure si trovano nuove forme di solidarietà sociale, una solidarietà non solo rivolta verso gli altri ma che ci coinvolge in prima persona. Una solidarietà di cui siamo parte in causa e che ci aiuta a convivere meglio".

Nel libro lei parla di convivenza nell'età delle emozioni. Ma convivenza non è parola che va poco di moda oggi?

"La convivenza è un po' un destino, trova sempre nuovi modi di ridisegnarsi. Anche oggi mentre sentiamo dire 'prima gli italiani' moltissimi stranieri comprano casa nel nostro paese, si stabiliscono qui, cominciano a far parte della collettività. E poi anche chi grida 'prima gli italiani' ha cambiato prospettiva se ci fa caso".

Davvero?

"Fino a poco tempo fa si diceva 'prima i lombardi' e già ora è diventato 'prima gli italiani' e tra qualche tempo si dirà 'prima gli europei'. I localismi col tempo diventano meno locali e se si passa da 'prima i lombardi' a 'prima gli italiani' non è solo un cambio di strategia politica ma un cambio di visione della società. Pian piano ogni discorso si allarga e questo è un dato della globalizzazione. Se la globalizzazione colpisce tutti allora si sviluppa una solidarietà che colpisce tutti. Come scrivo alla fine del libro riportando le parole del giornalista turco di origine curda, Hrant Dink, ucciso nel 2007: "Convivere non è una grazia che viene dall'alto ma una civiltà che bisogna produrre […] c'è una sola strada: tentare, tentare, tentare". Forse ciò significa anche rinunciare a qualcosa... per ottenere molto di più".
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