“Chi è nomale? Nessuno. Quando si è feriti dalla diversità, la prima reazione non è di accettarla, ma di negarla. E lo si fa cominciando a negare la normalità […] Tutto diventa eccezione e il bisogno della norma, allontanato dalla porta, si riaffaccia ancora più temibile alla finestra”.

Così parla un padre che ha imparato a convivere con la disabilità del figlio.

Paolo è nato con una scarsità di ossigeno, che l’ha condotto alla tetraparesi spastica distonica. Un nome tanto difficile da pronunciare, così come tanto faticoso da accettare per un genitore: “Ricordo il professore che, tre mesi dopo il parto, dietro la scrivania del suo studio, ci aveva rivelato la verità, ovvero quello che pensava […] ‘Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare”.

La patologia di Paolo lo porta ad avere un’andatura irregolare: non mantiene l’equilibrio, cade spesso; anche la parola e la manualità risultano compromesse, mentre l’intelligenza rimane intatta. Per il padre è difficile ammettere che il figlio è disabile, altresì convivere con questa consapevolezza. La moglie, Franca,  lotta quotidianamente per dare a Paolo la parvenza di un bambino normale; mentre Alfredo, il figlio più grande, non accetta il fatto che il fratellino, con tutti i suoi problemi, gli abbia rubato le attenzioni. Per questo lo deride o si rifiuta di aiutarlo: “La famiglia si difende contro i nemici. Alimenta anzi la percezione del pericolo (come Roma alimentava dice Sallustio, la paura, per ritrovare la saldezza interna). Ma poi scopre il nemico in casa”.

Lui, professore in un istituto d’arte, pensa di non aver saputo insegnare nulla ai figli. Si definisce un padre assente, proprio perché non riesce a stare vicino a Paolo, né fisicamente né emotivamente. Davanti alle difficoltà del figlio, si arrabbia, diventa impaziente e ansioso. Si sente al limite della resistenza, in quella che definisce essere una “selezione crudele delle energie”.

Non si vuole illudere davanti ai progressi del figlio, per non diventare sofferente a ogni sbaglio; ma Paolo lotta per raggiungere ogni progresso: quando riesce a fare i gradini, quando riempie il bicchiere d’acqua senza versare una goccia sulla tovaglia o quando riesce a intavolare brevi conversazioni. Paolo sente la sfiducia del padre, che d’altra parte sceglie di non sperare più in una guarigione completa.

La malattia del figlio, tuttavia, rappresenterà per lui un percorso di crescita e consapevolezza, sia come uomo che come padre: “[…] E, quando diciamo che l’esperienza ci aiuta a capire l’handicap, omettiamo la parte più importante, e cioè che l’handicap ci aiuta a capire noi stessi”.

“Nati due volte” è un libro di Giuseppe Pontiggia, edito da Mondadori.

In queste pagine si può cogliere il tortuoso percorso dei genitori che si ritrovano a fare i conti con la malattia dei figli. Una malattia che scombina il sistema famigliare, intensifica i rapporti dei genitori col figlio malato e, molto spesso, porta all’esclusione involontaria dei figli sani, i quali perdono la loro centralità. Il momento della diagnosi è per i genitori una fase di rinuncia nei riguardi dell’immagine idealizzata del figlio e della progettualità che ha accompagnato il percorso della gravidanza. Questo comporta, nelle fasi iniziali, uno stato di disorientamento e una negazione della realtà,  che si manifesta nella speranza di un errore diagnostico o nella ricerca di terapie alternative. Nella gestione quotidiana della malattia, possono subentrare invece degli atteggiamenti di iperprotettività nei confronti del bambino malato e allo stesso tempo sentimenti di impotenza, ansia e tristezza. Nel caso specifico del protagonista, l’esperienza della malattia del figlio viene ridimensionata come rinascita della genitorialità ed esperienza di crescita personale, per giungere poi all’accettazione della patologia e alla possibilità di costruire un nuovo equilibrio.

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