Fotografo, editore, docente, curatore di mostre e soprattutto divulgatore instancabile della cultura fotografica. A volte anche visionario e capace di scelte coraggiose come quella di ideare, organizzare e allestire quasi sessanta mostre in contemporanea a Villaverde nel 2017, dove convocò gli stati generali della fotografia in Sardegna. Una delle tante iniziative di Salvatore Ligios, che in questi giorni espone nel sue foto sui poeti sardi contemporanei a Cagliari a Sa Illetta nella sede di Tiscali.

Il fotografo è nato nel 1949 a Villanova Monteleone. Ha insegnato a Sassari nell'Accademia di Belle Arti. Per quasi dieci anni ha diretto il polo culturale di Su Palatu nel suo paese natale. Chiusa quell'esperienza per divergenze con il Comune ha continuato a promuovere la fotografia organizzando mostre, convegni e decine di iniziative in tutta la Sardegna, nelle città e nei paesi più piccoli. Da anni porta avanti i suoi progetti indipendenti. Ha esposto i suoi scatti in Italia e all'estero (Germania, Portogallo, Ungheria e Grecia) e pubblicato oltre quaranta libri fotografici. In questa intervista racconta il suo punti di vista sulla fotografia toccando diversi temi.

Fedelissimo all'analogico. Perchè?

"Appartengo alla generazione che ha usato per molti lustri la pellicola. Ho realizzato i primi scatti a metà degli anni Settanta. E l'immaginario fotografico era alimentato solo dai rullini in bianconero e a colori. Nei giorni extralusso potevo avvicinarmi alle pellicole Kodakchrome, particolarmente intriganti quelle per luci artificiali, che mandavo a Londra per lo sviluppo. E quando le rispedivano a casa, dopo 2-3 mesi, mi ero già dimenticato cosa stavo sperimentando".

Come mai stampava a Londra?

"I laboratori del colore presenti nel territorio erano poco attraenti, associati per lo più ai servizi matrimoniali. La facilità di poter gestire in casa i vari processi di sviluppo e stampa del bianconero ha condizionato le scelte di campo. Oggi pratico la fotografia quasi esclusivamente per progetti personali e l'uso della pellicola in bianco e nero segue l'abitudine consolidata nel tempo. A casa è presente una camera oscura per lo sviluppo dei negativi, con due ingranditori per la stampa su carte di vario tipo che ancora tengo in magazzino".

Come nasce un progetto fotografico?

"Non c'è una regola. Almeno per me. Non essendo un fotografo di professione, non ho obblighi imposti dal cliente. Decido cosa fare e come farlo. Ma non essendo un nababbo le scelte sono condizionate da diversi elementi: costo di produzione, tempo necessario e difficoltà di realizzazione. Se non hai i soldi devi lavorare per mettere da parte il capitale che serve per sostenere le spese. Oppure trovare partner che credono nel progetto e sono disposti a darti una mano. Spesso l'idea cammina sotto traccia per molto tempo. Il vantaggio sta nella mancanza di assillo per una data di scadenza. Con l'ingresso di uno o più sponsor - qui è l'altro lato della medaglia - aumenta il rischio di subire condizioni e scelte non condivise. Col passare del tempo ho preferito avventurarmi sempre da solo, e soltanto a progetto concluso ho cercato alleanze per realizzare praticamente una mostra o un catalogo".

Cosa racconta "Sogni meridiani. Viaggio nella poesia contemporanea".

"Sogni meridiani" raccoglie 64 ritratti di poeti sardi contemporanei. Una campionatura fatta sulla maggior parte di varianti poetiche presenti oggi in Sardegna: in lingua sarda, in italiano, improvvisata, cantata, in rima sciolta o a verso libero. Cercando autori solo in modo apparentemente arbitrario, cioè non curandomi di classificazioni accademiche o di notorietà pubblica. Il lavoro si collega a un altro progetto degli anni Novanta, 'Facce di sardi. Ritratti d'identità'".

L'ultimo suo progetto è "Millennials. Prima di uscire di casa". Di cosa si tratta?

"Millennials" è un ritorno a casa in senso fotografico. Il pretesto dei nati a Villanova Monteleone negli anni 1999 e 2000, e fotografati al compimento dei diciotto anni, vuol essere un piccolo diario della comunità dove abito da lasciare a quelli che arriveranno nel prossimo futuro. Magari si divertiranno a commentare sui giovani antenati".

Quali sono stati i fotografi che hanno ispirato il suo lavoro?

"I primi non li ricordo, e a pensarci oggi credo fossero dei fotoamatori. Sono entrato nel mondo della fotografia grazie a mio fratello Luigi che abita a Roma. Quando veniva in vacanza portava a casa una valigia di riviste "Popular Photography" (versione originale): era un mensile americano che mi mandava in visibilio. In pratica la prima droga consumata nel mettere i primi passi dentro questo mondo estetico. Con gli ingenui tentativi di imitazione - risultati terribili - e le continue esperienze sul campo ho imparato ad esplorare con maggior attenzione i lavori di autori famosi e bravi".

Le viene in mente qualche nome?

"Difficile elencare i nomi delle persone che ho ammirato e ancora studio. Ne cito due, per la forza del pensiero che c'è dietro: per i ritratti il tedesco August Sander e per i paesaggi l'americano Robert Adams".

Tantissimi suoi progetti fotografici sono strettamente legati ai temi identitari.

"Credo siano tutti i lavori finora prodotti legati al tema dell'identità. Anche quelli che all'apparenza farebbero pensare essere realizzati per altri scopi. Dai primi scatti al poeta improvvisatore Remundu Piras come le riprese della cavalcata sarda in Piazza d'Italia a Sassari, passando per i paesaggi della Sardegna in bianconero e gli improbabili 'gherradores' del calcio dilettantistico nostrano, l'interesse è di esplorare l'isola nelle sue diverse realtà. All'apparenza uno sguardo attratto dal valore estetico ma in profondità interessato a indagare il tempo sociale della Sardegna contemporanea. Cioè quello che vivo tutti i giorni, non solo quello festaiolo proposto dalla fabbrica anonima del divertimento continuo. La lunga lista delle pubblicazioni mandate in stampa è eloquente al riguardo".

Lei si è occupato spesso del paesaggio. In alcuni suoi lavori, negli scatti non ci sono presenze umane. Perché?

"L'osservazione del paesaggio ha accompagnato sin dall'inizio i vagabondaggi in giro per le aree dell'isola. La lettura sorprendente del testo di Maurice Le Lannou mi ha spinto a mettere in relazione i differenti aspetti delle zone sotto osservazione. Complice la formazione nella quale la mia generazione è cresciuta. Impegno politico e sociale perché tutto è (era) politica. E l'edonismo reaganiano era di là da venire. L'assenza delle figure umane è solo apparente".

Perché solo apparente?

"Tutti gli spazi fotografati sono antropizzati e pensare che rimuovendo la presenza dell'uomo renda una campagna o una collina un paradiso bucolico è un pretesto retorico che provoca l'intelligenza di chi osserva. La superficie è solo il primo strato. La fotografia ha la capacità di registrare tanti segni che attendono uno sguardo vigile per scomporre la messa in scena e andare al nocciolo della visione.

Come è lo stato di salute della fotografia in Sardegna?

"Domanda facile, ma le risposte possono essere diverse. Dipende da quale indicatore si utilizza per fare l'analisi. La stessa parola fotografia è ambigua e cambia pelle a seconda di chi la usa e di chi la legge. Tutto il mondo è un vortice fotografico, siamo tutti fotografi. Se basta questo dato la salute è ottima. Se si relativizza il fenomeno e lo si guarda nell'evoluzione temporale, quasi due secoli di cammino, le valutazioni si differenziano. Secondo quelli che hanno amato l'immagine analogica la fotografia è morta con la fine della pellicola. Per chi è passato alla tecnica digitale la fotografia è al contrario più viva che mai. In Sardegna la situazione è identica a quelle terre che hanno sentito parlare di questa meravigliosa scoperta. Nel frattempo hanno fatto qualche esperimento e attendono fiduciosi di essere colonizzati".

Cosa pensa dei festival di fotografia?

"È l'occasione per gli appassionati di vedere dal vivo tanti autori spesso conosciuti solo attraverso le riproduzioni tipografiche dei libri e delle riviste o sullo schermo del computer e del tablet. Negli ultimi anni si nota un risveglio del fenomeno. Anche se nell'Isola parlare di risveglio è un eufemismo. Questa pratica, nata in Francia alla fine degli anni Sessanta dall'idea dello scrittore Michel Tournier e del fotografo Lucien Clergue, è diventata un modello riprodotto in tutto il mondo, ma in Sardegna è stata utilizzata in modo sporadico. Al momento resistono gli appuntamenti di Mogoro e Olbia. Il festival internazionale "Menotrentuno", organizzato dal 2006 sino al 2016 da Su Palatu Fotografia, si è fermato definitivamente. All'orizzonte è apparso il festival ASPA di Alghero. Difficile fare valutazioni in una regione in forte ritardo con i fenomeni mediatici".

Da due anni Gavoi ospita una tappa di World Press Photo. Come giudica di questa iniziativa?

"Delle iniziative fotografiche, sempre poche per noi fotoamatori, bisogna parlarne bene. Il peso della rassegna internazionale WPP si certifica da sola. Vi partecipano autori da tutte le parti del mondo. Un'occasione imperdibile per osservare da vicino stampe fotografiche su carta che hanno superato una difficile selezione tra migliaia di scatti, uno più bello dell'altro. Immergersi in questo labirinto estetico, sociale, politico e umano di realtà drammatiche o esotiche presenti nel mondo sempre più piccolo tocca le corde dei sentimenti di ciascuno. Per un giorno sembra di provare con mano quanto di diverso c'è fuori dalla nostra isola. Ma basta questo per dire che anche noi sardi siamo dentro il circuito mondiale della cultura fotografica?.

Cosa pensa della tecnologia applicata alla fotografia e degli eccessi di post-produzione?

"Come ho detto prima quando si parla di fotografia bisogna intendersi sulle parole che usiamo, e se attribuiamo ad esse lo stesso significato. La tecnologia è uno strumento a disposizione del fotografo. Permette di raggiungere risultati fino a qualche anno fa impensabili. Se si dovesse risvegliare qualche padre della fotografia e scoprire le immagini che si ottengono con i cellulari chiederebbe di essere cancellato dai libri di storia. Paragonare modelli del passato alle produzioni attuali porta a fare considerazioni sbagliate e forse inutili".

Cosa è cambiato?

"È cambiato l'uomo contemporaneo e quella che si produce oggi e viene chiamata sbrigativamente fotografia, non è più quella cosa che in origine veniva chiamata fotografia. È un altro prodotto che gli addetti ai lavori stanno cercando di definire in modo corretto e appropriato".

Cosa resta dell'esperienza di Su Palatu?

"Dello spazio fisico Su Palatu di Villanova Monteleone restano tanti documenti e un centinaio di pubblicazioni che hanno mappato un decennio forse unico nel panorama isolano. E inoltre un corposo archivio fotografico ora in deposito presso l'associazione culturale Su Palatu Fotografia. L'assenza di uno stabile aperto tutto l'anno riconducibile all'attività espositiva e organizzativa ha forse indebolito la percezione del lavoro che l'associazione culturale - porta sempre il nome d'origine "Su Palatu Fotografia" - continua a proporre fuori del paese, ma il sodalizio non ha mai chiuso i battenti".

Quali sono le iniziative promosse da Su Palatu?

"Continuiamo a realizzare progetti e manifestazioni in molti paesi della Sardegna, in special modo quelli piccoli, per un semplice motivo: consentono di ottimizzare i progetti culturali che stanno alla base delle proposte e non c'è l'ansia di giudicare il lavoro dal numero dei biglietti staccati. Le esposizioni sono offerte al pubblico gratuitamente. Ci sembra il modo più democratico per far crescere la fotografia dal basso.

Come è cambiata l'editoria nel settore della fotografia?

"Praticamente è cambiato tutto. Con l'arrivo del digitale le prime a entrare in crisi sono state le tipografie. Le nuove tecnologie di stampa hanno permesso di accelerare le produzioni, abbattendo i costi di stampa, dando l'opportunità a un crescente numero di fotografi di poter realizzare i loro sogni fermi per troppo tempo nel cassetto: stampare il libro fotografico personale anche in poche copie ma con la veste grafica e la qualità dei grandi maestri".

Cosa pensa del fotogiornalismo?

"La società cambia e con essa le parole, compresi anche i confini di quello che nel tempo questi termini rappresentavano. Più che pensare c'è da osservare come sia repentino il cambiamento di realtà e professioni che sembravano monoliti intoccabili dal tempo. Il fotoreporter ha vissuto la sua stagione d'oro con la diffusione delle riviste a tiratura infinita. Il ruolo del documento fotografico è stato fondamentale per raccontare la società. Oggi sostituito da una miriade di strumenti digitali, diversi automatici e alcuni per funzionare privi di un operatore pensante. Sempre più difficile per l'uomo comune percepire il ruolo e l'identità di chi va a caccia di notizie. Sono così numerose e servite in tante declinazioni da perdersi senza ricordarsi neppure il nome del testimone. Tutti i mesi nell'ultima pagina del magazine Millennium (Il Fatto Quotidiano) a futura memoria viene ricordato il nome di una vittima mentre cercava di svolgere il suo mestiere di fotoreporter".

A quando (dopo Villa Verde) gli stati generali della fotografia in Sardegna?

"I progetti e le proposte non mancano. Sono convinto che la fotografia in Sardegna sia materia poco attraente. Salvo il lavoro di una piccola minoranza, ed escluse le solite celebrazioni del passato e trapassato remoto che fanno cultura nella libreria del salotto di casa o per i racconti fantastici della Sardegna sempre in festa e immersa nel paradiso terrestre. La si usa ma non la si studia. Tanti la consumano ma pochi le danno valore. Uno dei motivi è legato al suo principale utilizzo: strumento senza uguali per testimoniare la "realtà" (fotografica) contemporanea che vogliamo vendere a quelli che vengono a trovarci per vacanza o per conquista. Sarebbe ora di rimboccarsi le maniche e lavorare insieme per far uscire la fotografia dalla naftalina".
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