Negli ultimi anni molti degli aspetti identitari della civiltà occidentale sono finiti alla gogna. La tradizione giudaico-cristiana si trova sotto attacco. Lo stesso può dirsi per la tradizione del secolarismo e dell’Illuminismo, radici di tanta qualità politica, scientifica e artistica.

Se guardiamo anche semplicemente al mondo della politica e a quello degli intellettuali ci rendiamo conto che si è affermata una corsa a chi partecipa maggiormente alla demolizione collettiva della cultura occidentale. Simbolo di questa tendenza è l’establishment radical chic che comanda nelle università soprattutto in America, un establishment che descrive l’Occidente come l’Impero del Male, l’inferno del razzismo, della xenofobia, del sessismo e di ogni discriminazione.

Il giornalista britannico Douglas Murray, una delle voci meno allineate a questa tendenza mainstream, offre nel suo saggio "Guerra all’Occidente” (Guerini e Associati, 2023, Euro 29, pp. 368. Anche Ebook) una difesa appassionata della cultura occidentale, delle istituzioni e della politica. E dimostra, con solide argomentazioni, come non debba e non possa essere una vergogna essere orgogliosi di quanto l’Europa e la cultura occidentale hanno donato al mondo.

Murray non è un negazionista delle colpe e degli errori dell’Occidente. È però contrario a ogni forma di demonizzazione e di glorificazione a priori. Non a caso una delle domande attorno cui ruota Guerra all’Occidente è: «Se la storia dell’umanità è fatta di schiavitù, conquiste, pregiudizi, genocidio e sfruttamento, perché solo le nazioni occidentali se ne prendono la colpa?». Per ipocrisia? Per convenienza come avviene per alcune multinazionali desideroso di mostrarsi progressiste a tutti i costi? Per scarsa conoscenza della storia?

Murray propone un’incisiva decostruzione di argomenti incoerenti e attivismo ipocrita, spiegando come l’antirazzismo talebano rischi di diventare un’arma controproducente e mostrando le crepe del politically correct imperante. Proprio il politicamente corretto, da sacrosanta e benemerita garanzia contro discriminazioni e pregiudizi, si è trasformato in una sorta di mantra, in una forma di comunicazione per cui ogni espressione, dichiarazione, giudizio va soppesato attentamente in modo da non offendere e non mettere a disagio nessuno. Nelle sue forme più ultras, quelle che tanto piacciono ai salotti intellettuali e ai progressisti radical chic, può diventare uno strumento per tacciare di razzismo, fascismo, qualunquismo, insomma qualsiasi “ismo” possibile e immaginabile chiunque non segua il mainstream contemporaneo su temi etici, multiculturalismo, globalizzazione e immigrazione. Quella che emerge è allora una vera e propria “dittatura” che restringe la libertà di pensiero e di espressione e che limita i campi di ricerca anche degli intellettuali, preoccupati fin troppo di non finire alla gogna mediatica e social di moderni inquisitori e moralisti 2.0.

Viceversa, proprio un mondo complesso come il nostro, improvvisamente multiculturale e sottoposto alle sfide della globalizzazione, ha bisogno di pensieri coraggiosi e alternativi. Ha bisogno di discussioni aperte senza trascendere in “guerre di religione” e in continui “muro contro muro”. Quelle discussioni che è capace di suscitare Douglas Murray con il suo libro, un testo scomodo, anche irritante in certi punti, ma necessario per non trasformarci un po’ tutti in struzzi che in nome del quieto vivere e del formalismo preferiscono mettere la testa sotto la sabbia e negano i problemi quando sono troppo spinosi.

La copertina
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