Puoi essere stato il primo a parlare del fenomeno della Lega in televisione ("Profondo Nord" e "Milano, Italia"), puoi aver diretto il TG1 e contribuito a fondare La7, puoi aver scritto per il Corriere della sera, L'Espresso e Repubblica: se ti chiami Gad Lerner, non perderai la voglia di esporti in prima persona. In tempi di sovranismi imperanti e revisionismo storico, il giornalista si mette ora in gioco con un incontro che ha per titolo "Equilibrio e forza di gravita?. Un'allocuzione pre-scientifica mirante a dimostrare che gli esseri umani (per fortuna) non hanno radici", che si svolgerà sabato al Teatro Massimo di Cagliari, alle 20, inserito tra gli eventi di punta della quarta edizione del LEI festival, a cura della Compagnia B.

Che rischi comporta avere radici culturali troppo strette?

«Parlandone qui da voi mi rendo conto di giocare in trasferta , c'è una forte identità nella Sardegna che si percepisce come nazione con una sua lingua propria. Il mio intento è il dialogo, non la contrapposizione. Sono nato in Libano nel 1954 da una famiglia ebraica, ho vissuto per quasi trent'anni in Italia da apolide prima che mi riconoscessero la cittadinanza: sono da sempre portato a diffidare della retorica delle radici. La mobilità è la traccia fondamentale dell'essere umano, e chi teorizza troppo sulle radici di solito è uno che se le inventa».

Molte forze politiche appoggiano la linea del respingimento, in tema di migranti.

«Fanno presa sugli elettori perché in Italia c'è una forte tendenza all'autocommiserazione, a percepire la nazione come una vittima. È un'idea che risale al periodo preunitario nell'Ottocento, quando la Penisola era dominata dagli stranieri: ci porta a pensare che il nostro patrimonio faccia gola a molti e tutti ci vogliano depredare. Oggi si parla di cospirazioni ordite dai poteri occulti della finanza, o di nazioni straniere che orchestrano le immigrazioni dall'Africa per distruggere la nostra economia, sostituire la nostra gente e recidere le nostre radici, appunto».

Perché alcune frange estremiste hanno paura di Liliana Segre, costretta dalle minacce ad avere una scorta?

«Dipende dal fatto che la senatrice Segre non si limita a testimoniare di un passato, l'Olocausto, da loro considerato remoto. Lei dà fastidio, quando parla del suo vissuto, perché dice "Anch'io sono stata clandestina, anch'io sono stata davanti a una frontiera". Non si tollera che la storia possa essere maestra di vita tracciando un legame col nostro presente. Lo stesso vale quando si contestano i partigiani: meglio considerare la lotta della Resistenza un avvenimento lontano che non può riaccadere, compatendo chi parla di ritorni del fascismo. È ovvio che il fenomeno storico del fascismo non può ripetersi, ma questo non vuol dire appianare tutto, far passare le svastiche o le foto di Anna Frank negli stadi come un gioco tra tifoserie».

È anche colpa della crociata "anti-buonista" di parte dell'informazione.

«Lo sdoganamento di un lessico aggressivo è iniziato oltre vent'anni fa, penso ai titoli di alcuni giornali di destra contro albanesi, romeni e poi mussulmani. Con la scusa del politicamente corretto inteso come "gabbia illiberale che non rappresenta i sentimenti del popolo", infatti, si è cominciato ad accettare un linguaggio che ha fatto scadere tutto il dibattito - inaugurato all'inizio dai leghisti invitati nei talk show».

Può esserci un nesso con l'affermazione del movimento delle Sardine?

«Credo di sì, penso sia un segnale importante, frutto del disagio e dell'imbarazzo che si è diffuso in questi anni di fronte all'egemonia culturale di quel linguaggio brutale che descriveva il profilo di un'Italia incarognita, preda del livore».

Luca Mirarchi

© Riproduzione riservata