L'11 ottobre del 2011 inizia come un giorno qualunque per Marco Dolfin. Si è da poco sposato e sta coronando il sogno di diventare chirurgo ortopedico e proprio all'ospedale dove lavora si stava recando in moto quando un'auto invade la sua corsia e lo centra in pieno. La più classica e assurda delle fatalità, che per Marco significa scoprire ben presto di non potere più camminare e quindi lavorare in una sala operatoria, il sogno della sua vita. Marco però sente che la sua testa funziona ancora come prima dell'incidente e anche le sue mani sono a posto. Sente soprattutto che quello che gli è accaduto non è una punizione del Cielo e neppure un esempio di accanimento del destino. È un evento che nella vita può accadere e che non si può fare nulla per cambiare. Decide allora di darsi da fare per poter continuare a vivere al meglio delle proprie possibilità, fino a tornare in una sala operatoria…ma questa volta non disteso sul lettino chirurgico come quel maledetto 11 ottobre 2011.

Scritto dal giornalista Alberto Dolfin, fratello del protagonista della vicenda, Iron Mark (Bradipolibri, 2020, pp. 128) è prima di tutto una bella storia e un bel libro. E lo è perché sa raccontare senza retorica e senza reticenze quanto sia duro e allo stesso tempo emozionate sapersi rialzare dopo che la vita sembra averti tolto tutto. Quando sembra che tutto sia perso, bisogna sapersi reinventare ed è quello che Marco Dolfin ha fatto diventando atleta paralimpico nel nuoto, partecipando alle Olimpiadi del 2016 e soprattutto tornando a fare il chirurgo a tempo pieno grazie a una speciale e avveniristica carrozzina. All'autore del libro, Alberto Dolfin, chiediamo prima di tutto come è stato da fratello raccontare la straordinaria avventura di Iron Mark:

"Non è stato semplice anche perché ero molto coinvolto nella vicenda e conoscevo fin troppo bene il protagonista che volevo raccontare. Ho dovuto trovare il giusto distacco, la giusta distanza per poter narrare al meglio".

Suo fratello l'ha aiutata nella costruzione del libro?

"La cosa che mi è piaciuta di più della lavorazione di Iron Mark è legata al fatto che ho potuto approfondire tanti particolari e sfaccettature che non conoscevo fino in fondo della vicenda di Marco. Complice il lockdown e il fatto che il reparto di mio fratello fosse chiuso per il Covid abbiamo avuto tempo per lunghe telefonate e Marco mi ha rievocato tante situazioni che non avevo vissuto in prima persona o da vicino. Per esempio, dopo l’incidente mio fratello ha voluto affrontare la riabilitazione senza sentirsi troppa pressione addosso. Aveva bisogno di trovare un suo nuovo equilibrio e per questo io ho vissuto questa sua ripartenza abbastanza da lontano. Nel suo racconto ho capito quanto quei mesi di riabilitazione vissuti anche in solitudine siano stati importanti per raggiungere poi tanti traguardi in campo sportivo e lavorativo".

Ha fatto delle scoperte inaspettate su suo fratello?

"Non ho scoperto nulla di totalmente inaspettato però ho imparato a conoscere meglio Marco. Lui e sua moglie Samanta mi hanno permesso di entrare nella loro sfera più intima e delicata raccontandomi, per esempio, le vicende legate alla nascita dei loro due gemelli. E grazie a mia moglie, che mi ha spinto a non descrivere mio fratello come una sorta di supereroe capace di riuscire in tutto, mi sono sforzato anche di cogliere le fragilità e i momenti di difficoltà di un uomo che si è trovato ad affrontare una sfida da far tremare i polsi anche ai più coraggiosi. Nel libro, insomma, non manca il racconto delle tante quotidiane paraolimpiadi che Marco deve affrontare come disabile".

Lei, come giornalista ha avuto l'occasione di raccontare l'avventura di suo fratello alle Paraolimpiadi di Rio del 2016. Che emozione è stata?

"Unica, un’emozione unica, soprattutto perché eravamo lì con tutta la mia famiglia a fare il tifo per Marco e nello stesso tempo potevo raccontare le sue imprese nei miei articoli per La Stampa. Cosa si può volere di più nella nostra professione?".

Cosa insegna la vicenda di Marco Dolfin?

"Che è vietato dire che non ce la faccio, per usare le parole di un'altra grande atleta paralimpica, Nicole Orlando. La dote più evidente di Marco è stata la resilienza, la capacità di resistere all'urto per poi ripartire. Ha mostrato una forza in ogni ambito della sua vita – dalla famiglia al lavoro, passando per lo sport – di cui sono quasi geloso…nel senso che sono molto orgoglioso di lui. Dopo l’incidente si è cimentato ad altro livello nello sport, coronando un sogno che aveva fin da bambino. È tornato in sala operatoria e non da chirurgo di Serie b ma facendo gli interventi che aveva sempre progettato di fare. Ha una splendida famiglia con due gemelli nati dopo l’incidente e che sono i suoi primi tifosi…non sarà un supereroe, ma poco ci manca!".
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