Il Cinema che racconta, si erge a giudice ed esplicita la Guerra. O se si preferisce, la Guerra sotto la lente di ingrandimento della Settima Arte, avente l'obbligo di eliminare da classifiche di merito pellicole troppo propagandistiche, fatte a mero uso commerciale, senza che il protagonista "uomo", possa rifulgere di luce propria.

È di turno il primo conflitto mondiale e lo scrivente si assume la responsabilità soggettiva e convinta, contestabile da altri, di non trattare un film oggi in grande spolvero, "1917" di Sam Mendes, incetta di candidature ed Oscar. Nauseante osservare nelle trincee protagonisti sempre perfettamente sbarbati, pulitini e belli, pronti ad una ipotetica sfilata in passerella, con vestiario lindo o qualche gomito polveroso.

La macchina da presa può farti vedere effetti speciali straordinari, perfino qualche ratto proveniente da un laboratorio, ma quando esagera si cade nel ridicolo.

Aveva ragione il prof di Lettere della media inferiore: il 28 giugno del 1914 a Sarajevo, quando Gavrilo Princip assassinò Francesco Ferdinando e consorte, tutto cambiò nel mondo, non solo nel nostro vecchio continente. Gli scossoni furono tremendi anche per eventi imprevedibili all'inizio del conflitto: Rivoluzione d'Ottobre che soppiantò la Russia zarista, disfacimento dell'Impero Ottomano, impietoso imperversare dell'influenza spagnola che colpì indiscriminatamente i due fronti in competizione, arrivando in seguito, si dice, alla morte di cento milioni di vittime nell'intero pianeta.

Trincea, luridume, fango, assalti all'arma bianca. Lo scrivente, come tutti, contribuisce con la memoria personale trasmessagli: padre e nonno partecipanti ai due conflitti mondiali. Ma è il nonno ad aver offerto un quadro allucinante: richiamato nel piccolissimo centro del nord della Sardegna insieme ai compaesani, la maggior parte mai usciti dall'Isola, senza alcun addestramento specifico, impossibilitato a conoscere, se non alla lontana, quale "nemico" dovesse affrontare, né tanto meno quali precise motivazioni sussistessero. Era uno dei milioni di "uomini della trincea".

Le pellicole che lo scrivente ha l'onore di presentare, decisamente capolavori assoluti, fra esse alcune forse poco o niente conosciute ai più, esaltano l'individuo con le sue ansie e difetti, la famiglia di provenienza, ed anche e specialmente quali tracce lo tormentano a guerra ultimata.

Un singolo numero in concerto con altri milioni di "numeri", alle prese con la propria trincea da difendere, o quella che deve conquistare cento metri più avanti, occupata da altre persone come lui, con gli stessi problemi, ma indossanti una divisa di diverso colore.

Poco o nulla cambia nei diversi fronti europei: noi italiani conosciamo quanti cari quei campi di battaglia nel nostro territorio permangano nella memoria collettiva; la maggior parte delle pellicole si concentrano sul fronte franco-tedesco, il più sanguinario, dove furono in larga percentuale concentrate le truppe provenienti da altri continenti.

Niente film troppo stucchevoli o permeati di atti di eroismo per esaltare la magnificenza del singolo, quindi, perché nella "sporca guerra nel fango" conta il gruppo composto da soldati provenienti dalle più variegate lande. Nessuna classifica di preferenza: si seguirà l'ordine alfabetico. Utile ricordare che alcune di esse ebbero grossi problemi con la censura imperante.

"CHARLOT SOLDATO" di Charlie Chaplin, 1918, con Charlie Chaplin.

Da piccoli dicevamo "Charlot ci fa ridere". Col passare degli anni abbiamo ben inteso quanto le gag di questo omino con addosso stracci, bombetta, bastoncino e scarpe col fondo bucato, vagabondo e senza meta, costituissero solo una parte, nemmeno la più importante, del suo genio atto a rappresentare, ed il più delle volte con sonore sconfitte, il pessimismo profondo della tragicità dell'esistenza.

Diviene talvolta di moda chiedersi quale sia la sua pellicola da noi preferita, e quale donna venga esaltata, nella nostra mente, più delle altre nel suo famoso poker "Il monello", "La febbre dell'oro", "Tempi moderni", "Luci della città", con nell'ordine Edna Purviance, Georgia Hale, Paulette Goddard e Virginia Cherrill. La preferenza del sottoscritto premia quest'ultima pellicola.

Nei tre quarti d'ora del mediometraggio in questione, Chaplin partecipa alla guerra quasi per caso, è magistralmente estraneo alle regole, ma mostra con paradossi entrati nella leggenda una micidiale metafora del primo conflitto mondiale, con trincee allagate, formaggio per annichilire il nemico, impossibilità di dormire causa l'acqua che arriva quasi alla soffitta, il simbolico tramutarsi in albero, atti di eroismo nel fare prigionieri, fino all'allegorico incontro col supremo Kaiser in persona. Ci smentisce prontamente, per evitare gli vengano elargite medaglie e lustrini: solo un'immaginaria fantasia conseguente alla stanchezza.

"LA GRANDE GUERRA" di Mario Monicelli, 1959, con Alberto Sordi e Vittorio Gassman.

La Storia di questo "centro propulsore" della filmografia italiana è la situazione del Belpaese oltre un sessantennio or sono: i notabili democristiani (non tutti, ad Aldo Moro e Fanfani piacque moltissimo) e la Chiesa, allora molto influente nella politica, tentarono di ostracizzarne la realizzazione.

In realtà Monicelli ha offerto l'insuperabile "regionalizzazione" della Penisola, con parlate, vizi e virtù preponderanti in ognuno di noi. "La grande guerra" è il nostro specchio, nel bene e nel male. Siamo, in situazioni estranee al nostro temperamento, come lo stare in trincea, generosi, solidali, ma non certo un popolo di guerrieri. In fondo gli imboscati Sordi e Gassman ci rappresentano appieno, pur con l'eroico scatto di dignità finale.

"LA GRANDE ILLUSIONE" di Jean Renoir, 1937, con Jean Gabin e Erich von Stroheim.

A giudizio dello scrivente, il più grande capolavoro di Renoir (figlio del pittore Impressionista Pierre-Auguste) e dei due interpreti Gabin e von Stroheim. La guerra produce antagonismo e ostilità: ma può capitare che antiche regole cavalleresche in auge nell'allora Mitteleuropa e nella Francia napoleonica rimangano intatte, pur da fronti opposti. Renoir infonde una sensazione di pace interiore quasi sconvolgente, da rabbrividire.

"LA GRANDE PARATA" di King Vidor, 1925, con John Gilbert e Renée Adorée.

Lui è un riccone facoltoso che per istinto si arruola insieme ad un muratore e un barista. Nelle lontane trincee francesi diventeranno amici per sempre, e per due di essi il finale è tragico. Ferito seriamente e tornato in patria, il riccone vedrà la sua precedente situazione sentimentale sconvolta, ma ha la forza di tornare in Francia, salvato dall'affetto della bella ragazza conosciuta durante il conflitto. Bellissima pellicola che evidenzia i drammi dei reduci.

"JOYEUX NOëL" di Christian Carion, 2005.

Si può speculare su questa pellicola e accusarla di troppa retorica. Molte nazioni l'hanno accolta con indifferenza. Unico fatto documentato è trattarsi di un evento realmente accaduto alla vigilia di Natale del 1914, allorché cantanti lirici, truppe e religiosi francesi, scozzesi e tedeschi, organizzarono una piccola tregua incontrandosi in un limbo di terra, scambiandosi rispettivi auguri di pace cristiana. Furono tutti osteggiati dai rispettivi superiori. Da vedere per capire quanto in una guerra possano scaturire momenti di impensabile sollievo.

"ORIZZONTI DI GLORIA" di Stanley Kubrick, 1957, con Kirk Douglas.

Si è già esaltata questa storica e insuperabile pellicola. Può aggiungersi la rara efficacia con la quale Kubrick penetra nell'arroganza dei cosiddetti "generaloni", facendoli apparire macchiette e autocaricature di se stessi. I soldati francesi (sporchi, barbe incolte, sudati, sfiniti, rassegnati) che si commuovono sentendo cantare la giovane tedesca, rimane negli annali.

"LA SCIANTOSA" di Alfredo Giannetti, 1971, con Anna Magnani e Massimo Ranieri.

Non piace agli "intenditori": per il sottoscritto una straordinaria realtà delle nostre truppe al fronte. Lei ricorda un passato remoto da Diva. Adesso è agli sgoccioli, accetta di andare per tenere spettacoli ai militari. Parte dal Piemonte, nulla sa degli sviluppi della guerra in corso, all'arrivo lo scoppio delle bombe la scuotono. Entra nella grande sala per lenire le pene dei nostri militari: rimane sconvolta! Ha davanti a sé la visione drammatica, non fittizia, dei combattenti nelle trincee, e si accorge della dignità e abnegazione di tutti. Il suo sacrificio finale non sarà inutile.

"SETTIMO CIELO" di Frank Borzage, 1927, con Charles Farrell e Janet Gaynor.

"Guarda in alto le stelle, perché luccicano; mai in basso, perché ci sono le fogne e la paura". Lui è un disilluso che salva lei torturata dalla sorella. Vivono insieme fino a quando parte per il fronte. Borzage descrive il conflitto con una fantastica e metaforica visione celestiale, dove anche i tassisti divengono protagonisti coi loro macinini. Lui è ritenuto morto...ma si sa, nulla è scontato. Ai tempi, un successo planetario, da vedere e propagandare.

"L'UOMO CHE HO UCCISO" di Ernst Lubitsch, 1931, con Phillips Holmes e Nancy Carroll.

Lui è un giovane musicista francese che uccide in trincea un nemico coetaneo, anch'egli musicista. Morente, quest'ultimo gli consegna le proprie generalità. A conflitto ultimato va in Germania a casa della sua vittima per "chiedere comprensione" alla famiglia (genitori ed ex fidanzata). Sarà un brano di Schumann ad ufficializzare l'incredibile vicenda umana. Impossibile non commuoversi. La magia di Lubitsch è implacabile e non perde un colpo: ci mostra anche la reazione emotiva dell'opinione pubblica tedesca che porterà inevitabilmente verso il tragico nazismo. Ancora una volta il Cinema anticipa la Storia.

Mario Sconamila
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