Ci sono parole antiche, piene di significato, importanti e allo stesso tempo trascurate, quasi dimenticate. Una di queste è perdono, un termine troppo spesso considerato sinonimo di debolezza oppure semplicemente un sentimento insensato, illogico, quasi estraneo all’uomo che non può perdonare, ma forse solo dimenticare.

Il poeta e scrittore Gian Luca Favetto prova a ritrovare il senso di questa parola mettendola anche in relazione con un termine oggigiorno più fortunato: dono.

Lo fa invitandoci a viaggiare assieme a lui attraverso le sue esperienze, i personaggi letterari e reali che ha incontrato, i luoghi mitici e concreti che ha visitato. E ci offre come guida il suo ultimo lavoro, Qualcosa che si impara (NN Edizioni, 2018, Euro14 euro, pp. 176), un libro che sembra voler partire da una grande domanda che poniamo proprio a Gian Luca Favetto.

Che cos’è il perdono?

"È quella cosa che ho cercato di inseguire, indagare, scoprire scrivendo il libro, seguendo le idee e le storie che incontravo e che arrivavano. Non avendo una convinzione forte, una fede salda, una certezza da comunicare, ma solo dubbi e domande e tentativi da condividere, mi sembra di essere arrivato a intuire che il perdono, più di un concetto, è un’azione".

In che senso è un’azione?

"È qualcosa di fisico. Ed è un dono, un abbandono. Ed è un percorso. E il percorso non si può restituire in una frase, ma si deve, per l’appunto, percorrere, pagina dopo pagina, ci si deve fare lettori e incontrare chi ho incontrato io: Priamo, Achille, Ulisse, l’Innominato, Casanova, il figliol prodigo, Pasolini, mio padre, mia madre, Lione, Benares, Matera, Roma, Macbeth, Prospero, i miei amici. Bisogna 'farsi lettura' come io mi sono 'fatto scrittura'".

Ma il perdono oggi non è fuorimoda?

"Ma è mai stato di moda? Comunque, non ci sarebbe grazia senza perdono. Il perdono serve anche a restituirsi tempo. Non c’entra tanto con il comprendere, con l’assolvere, con il sopportare e non è spiegabile, se non nel senso di spiegarlo come si spiega una vela o una tovaglia. Tuttavia, è certo che, se non si perdona, si rimane piantati come croci in un cimitero. Se non si viene perdonati, si rimane nel limbo, anche se in quel limbo chiunque può organizzare un carnevale per illudersi. Se non perdoni te stesso, infine, se non ti accetti, quindi, non puoi perdonare gli altri. Per donare qualcosa un po’ perdoni e un po’ perdi".

È accettabile oggi l’idea di perdere?

"Forse no, non si accetta più di perdere, non si accetta più la morte. Figurarsi. Eppure, si muore e si perde comunque".

Perdonare significa anche dimenticare?

"Non so. Non credo. Non mi sembra. Mettere da parte e andare oltre non è dimenticare. Tanto è il vuoto, è il dolore, che non si dimenticano di te. Tu puoi solo cercare la leggerezza, credo. Per il perdono bisogna lievitare, essere leggeri, quel tipo di leggerezza che hanno i free climber quando scalano a mani nude le pareti di roccia".

Perché il perdono s'impara?

"Si impara perché si imparano tutte le cose e si impara come si imparano tutte le cose, con l’esempio e l’esercizio. Pensandoci, interrogandosi. Naturalmente, sbagliando. Che non è un male. Basta che poi ti perdoni e continui la ricerca. E alla fine del viaggio, è la ricerca a contare. La ricerca del perdono è forse già perdono?".

La copertina
La copertina
La copertina
© Riproduzione riservata