Un profilo Facebook hackerato, e “dodici anni di vita cancellati”. Immagini, video, ricordi e circa 3.700 contatti improvvisamente spariti: è quanto può accadere nell’epoca dei social, come raccontato nella testimonianza che pubblichiamo di seguito. Con un’importante riflessione: è giusto affidare ai social una parte così importante della propria vita?

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Ciò che facciamo definisce il nostro percorso, la nostra storia, contribuendo a definire ciò che siamo. Dato che ciò che siamo attiene al nostro sé che è qualcosa di immateriale, delle cose che abbiamo fatto non è indispensabile mantenere una traccia materiale, anche perché le cose che facciamo non sempre sono materiali. Però a volte le tracce materiali contribuiscono a mantenere la memoria di ciò che abbiamo fatto, anche dentro noi stessi, perché la mente a volte dimentica le cose. È questo il valore inestimabile di una foto o di un oggetto che ci ricordano un momento particolare che abbiamo vissuto.

Pochi giorni fa Facebook ha cancellato il mio account, e con lui circa dodici anni della mia vita. Immagini, scritti, video, ricordi (nel senso che FB dà ai ricordi), circa 3700 contatti, fra quelli a carattere personale e quelli che avevano un interesse professionale. Nel giro di mezzora ho perso tutto.

Ha poco senso dire che Facebook non è la vita ma la sua rappresentazione agiografica e fasulla: come ha osservato il filosofo Luciano Floridi, la distinzione fra vita reale e vita online non è più netta come agli inizi dell’era Internet, tanto da aver lui coniato il termine onlife per definire le nostre attuali esistenze caratterizzate da un’interazione incessante delle due dimensioni. Perdere Facebook vuol dire perdere un pezzo di sé; al netto della perdita economica, non meno di perdere la casa e tutto quanto in essa contenuto a seguito di un incendio o un terremoto.

Qualcuno si è inserito fraudolentemente nel mio account e Facebook l’ha sospeso, chiedendomi di dimostrare che fosse realmente mio. Prima ha chiesto di mandarmi un sms con un codice di conferma, poi ha voluto una mia foto e infine un documento di identità. Dopo essermi accertato che fosse veramente Facebook a chiedermi queste cose e non l’hacker stesso (un documento di identità non si manda a chiunque), ho fatto quanto chiesto. Facebook ha risposto che avrebbe controllato e in caso favorevole avrebbe riattivato l’account altrimenti l’avrebbe eliminato per sempre, in modo inappellabile. E così purtroppo è stato.

Non è servito a niente neppure segnalare il tizio che, poco dopo che ho creato un nuovo account, mi ha chiesto dei soldi per riattivarlo, dicendo di essere un professionista della sicurezza web; come pure è risultato inutile cercare un contatto qualsiasi presso Meta per segnalare l’accaduto.

Tutto quello che in dodici anni avevo caricato su Facebook è andato perduto irrimediabilmente: le navigazioni che ho fatto, i libri e gli articoli che ho pubblicato, i premi che ho vinto, le interviste che mi hanno fatto, le mie foto dei viaggi, i piatti che ho cucinato, i pensieri che ho espresso, i libri che ho letto e commentato, quello che ho vissuto insieme ad altre persone: all’improvviso non ho più un passato da sfogliare quando ne ho voglia.

Non è solo un fatto sentimentale, perché il passato in qualche modo ci definisce. Entrando in contatto con qualcuno per la prima volta (e anche i contatti lavorativi passano per il virtuale), la nostra vita raccontata sui social media rappresenta una sorta di biglietto da visita, dice chi siamo, ci conferisce credibilità, definisce la nostra reputazione. A me tutto questo è stato rubato.

Ma non è finita qui: quando un account viene eliminato, sparisce anche qualunque cosa scritta sui gruppi e sulle pagine; spariscono i commenti fatti sugli account di altre persone; spariscono ovunque i tag fatti da altri: spariscono proprio nel senso che non ci sono più, non sono mai esistiti. E noi con loro.

Spariscono anche le zavorre, è vero, quelle cose e quelle persone che ci portiamo appresso controvoglia e che costituiscono un fardello da sostenere. Alleggerirsi di tutto ciò che fatichiamo a lasciar andare è certamente uno stimolo a intraprendere nuovi cammini ma, come dice il proverbio, non si butta via il bambino con l’acqua sporca.

Il vero punto oscuro di questa vicenda risiede però nel fatto che la veridicità di quanto mi è accaduto è stata valutata da un soggetto privato. Certamente il chilometrico contratto che si sottoscrive al momento dell’iscrizione riporta la possibilità che Facebook cancelli un account per qualsivoglia motivo, ma la legittimità giuridica di quello che dal punto di vista legale è un semplice accordo fra due soggetti, non elimina i dubbi etici (e non solo) sul conferimento a un privato di un potere tanto grande sulla nostra vita, come quello di dire se siamo o non siamo. E senza che le istituzioni pubbliche che ci rappresentano possano eccepire nulla. Detta in parole povere, abbiamo privatizzato il nostro sé: non è bello per niente.

Luciano Piazza

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