Diffamazione, no al carcere obbligatorio per i giornalisti
Sono fatti salvi i casi di campagne di disinformazione, fatte con la consapevolezza della falsità delle informazioni diffuse
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Niente carcere per i giornalisti che commettono il reato di diffamazione, a meno che non si tratti di vere e proprie campagne di disinformazione, fatte con la consapevolezza della falsità delle informazioni diffuse (le cosiddette “fake news”).
Lo ha deciso la Corte Costituzionale con la sentenza 150 depositata oggi, il cui contenuto è stato in parte anticipato lo scorso 22 giugno dalla stessa Consulta.
Nei confronti dei cronisti, l'ipotesi di finire in cella rimane teoricamente in vigore ma è legata a casi veramente gravi di compromissione della reputazione, nei quali, ad esempio, viene alterato un risultato elettorale.
Con il verdetto i giudici hanno dato una bella “picconata” ad alcune delle norme sulla libertà di stampa datate 1948, in attesa di una possibile riforma complessiva.
"Chi ponga in essere simili condotte, eserciti o meno la professione giornalistica - si legge nel documento - certo non svolge la funzione di 'cane da guardia' della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità 'scomode'; ma, all'opposto, crea un pericolo per la democrazia", anche per i possibili effetti distorsivi di tali condotte sulle libere competizioni elettorali. Secondo i giudici, le norme che obbligano il giudice a punire con il carcere la diffamazione a mezzo stampa o tv, aggravata dall'attribuzione di un fatto determinato, sono incostituzionali perché contrastano con la libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
La minaccia dell'obbligatorietà del carcere sarebbe dunque "nefasta": può produrre l'effetto di dissuadere i giornalisti dall'esercizio della loro "cruciale funzione di controllo dell'operato dei pubblici poteri".
In particolare, la Consulta si è pronunciata su due questioni sollevate dai Tribunali di Salerno e di Bari, trattate nel giugno dello scorso anno.
In quell'occasione, il Giudice delle leggi aveva deciso, con l'ordinanza n. 132 del 2020, di rinviare di un anno per dar modo al legislatore di approvare una nuova disciplina, ma l'inerzia ha prevalso e così la Corte ha ora dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 13 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948), che prevedeva la necessaria applicazione della reclusione da uno a sei anni per il reato di diffamazione commessa a mezzo della stampa e consistente nell'attribuzione di un fatto determinato.
Se è vero che il diritto di cronaca e di critica "costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è men vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla dignità della persona". Pertanto, "aggressioni illegittime a tale diritto" "possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime".
(Unioneonline/F)