L'antico carcere di Castiadas oggi e domani riapre ai visitatori.

Turisti e villeggianti sono attesi anche nella vicina chiesa, nel cimitero dove sono sepolti carcerati morti durante la prigionia. Si potrà visitare anche la splendida Casa del direttore.

Un carcere che è un po' la storia del paese, regno delle vacanze e di spiagge paradisiache: il carcere è ancora lì, autentico monumento, in parte sistemato, in parte cadente.

Nel tempo, il Comune ha recuperato la casa del direttore, le scuderie, un'intera ala dell'antica colonia penale.

Tutte strutture di straordinario valore.

A poche centinaia di metri, nell'area che fino a 60 anni fa ospitava le mandrie degli allevatori-carcerati, è stato realizzato un teatro all'aperto. Visitando la prigione è davvero facile fare un tuffo nel passato.

Un pezzo di storia che ha segnato il futuro di Castiadas e del Sarrabus.

LA STORIA - Era il 1875 quando trenta forzati e sette guardie carcerarie, lasciata la casa penale di San Bartolomeo a Cagliari, sbarcarono sulla spiaggia di Sinzias tra Villasimius e Castiadas.

Il gruppo era guidato da Eugenio Cicognani: su mandato del ministero dell'Interno, l'ispettore aveva il compito di porre la prima pietra della nuova colonia penale agricola. La scelta cadde su un'area fra i torrenti di Gutturu Frascu e Bacu sa figu. E qui, i forzati e le guardie fissarono la loro prima dimora costruendo una capanna di legno. Qui nacque poi la più grande delle colonie penali agricole d'Italia.

IL CARCERE - Una struttura superba che sino al 1955 ospitò numerosi condannati: attorno migliaia di ettari di terreno, coltivati dagli stessi forzati. Ma anche un luogo di dolore, di isolamento e di disperazione.

Ai trenta originari forzati sbarcati nella baia di Cala Sinzias, nel tempo se ne aggiunsero centinaia: secondo il "Corriere di Sardegna", nel 1876, a Castiadas c'erano già 300 detenuti con le prime strutture murarie capaci di accoglierne addirittura 500.

Per la costruzione furono utilizzati graniti e calcare di Castiadas.

LE STRUTTURE - Oltre alle prigioni, a fine 1876, funzionavano già la falegnameria, le officine di fabbri e di carpentieri e persino una infermeria. Sorsero anche le strade e una decina di distaccamenti con gruppi di lavoro che addirittura dimoravano in case di legno montate su ruote: in ogni casa, dieci forzati. Tutti in giubba rossa. Una vita durissima, dicono le cronache, ma anche produttiva. Sorsero i poderi. Quello di Masone Pardu ospitò cento prigionieri che operavano su 250 ettari producendo legumi e cereali, frumento, avena ed erba medica nel podere Manno.

A San Pietro, 40 forzati coltivavano gelsi, ulivi, aranci, mandorli e limoni, mentre a Minniminni erano attive quattro stazioni carbonaie.

I poderi di Genna Spina, Bovile e Ortodeso erano stati invece destinati all'allevamento dei bovini, ovini e suini.

Una lunga opera, insomma, di bonifica e di trasformazione fondiaria, con la malaria che in questo frangente fece anche delle vittime, assieme alla tubercolosi.

A guadagnare di più erano gli innestatori (0,55 lire giornaliere nel 1900), mentre i salari più bassi toccavano agli spargitori di concimi che al giorno prendevano 0,32 lire.

LE PUNIZIONI - Durissime le punizioni per gli indisciplinati. Fra queste, la cella oscura con pane e acqua. E, poi, la cella di isolamento per sei mesi: non mancò chi per disperazione si suicidò e neppure le forti polemiche sui giornali di allora.
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