Entusiasmo, fantasia, prospettiva, visione: l’anima gioiosa di Carlo Piano parla del suo libro, del nuovo ponte di Genova che il padre Renzo - l’architetto italiano ammirato in tutto il mondo, Premio Pritzker, Leone d’Oro alla Carriera e un’altra sterminata serie di riconoscimenti internazionali - ha regalato all’Italia.

Giornalista e scrittore, saggista e romanziere, Carlo Piano sa di avere una responsabilità enorme sulle spalle: portare avanti, con la famiglia, l’eredità di un genitore straordinario che, superati gli 80 anni, continua a concepire meraviglie che illuminano il pianeta di bellezza, genialità e tecnologia.

Lo fa andando in giro a testimoniare il lavoro di un artista eccezionale e raccontandolo nei suoi libri.

Nella cornice del festival Bianco e Nero, organizzato nei giorni scorsi a Palazzo Doglio a Cagliari da Interforma, un collettivo di appassionati e cultori sensibili radunati attorno a Barbara Carcangiu ed Enrico Exiana, ha presentato la sua ultima fatica letteraria, “Il Cantiere di Berto, il romanzo del Ponte di Genova” edito da e/o, intervistato da Giorgio Vulcano.

Partiamo dal suo romanzo, senza rivelare troppi dettagli: chi è Berto e perché questo nome?

“Berto è un geometra cinquantenne di Certosa, il quartiere di Genova sotto il Ponte Morandi rimasto completamente tagliato fuori dopo il crollo. Faccio un esempio: per arrivare all’Ospedale Villa Scassi si impiegavano normalmente 15 minuti. Dopo la tragedia, senza più quella arteria tanto importante, erano necessari 40 minuti e oltre. Quindi immaginiamo cosa ha significato questo isolamento anche in considerazione del drammatico periodo di pandemia. Berto, aprendo la finestra di casa, vedeva il ponte tutti i giorni della sua esistenza: un amico, un dirimpettaio, un compagno di viaggio, un orizzonte costante anche nei momenti di riflessione quando una persona si affaccia per scorgere l’incedere del tempo ed il ritmo della vita quotidiana della gente. Certosa è forse il luogo che ha sofferto di più: le saracinesche dei negozi che si abbassavano senza riaprire non si contavano più, tantissime case, in particolare quelle nella strada proprio sotto il ponte, sono state sfollate e in molti casi demolite, anche il semplice passaggio di genovesi e turisti era ormai un lontano ricordo”.

Tornando a Berto…

“Berto, cinquantenne con un po’ di pancetta, è uno dei mille che ha lavorato, per 420 giorni sette giorni su sette, nel cantiere per ricostruire il ponte. Un vero e proprio esercito in servizio permanente a disposizione della Nazione: c’era un torto da riparare, uno sfregio alla memoria collettiva che ha unito tutte le regioni d’Italia in un afflato di intenti che voleva fortemente la rinascita. È la magia del cantiere, del fare le cose insieme, della squadra unita. In quella cittadella di lavoratori la colonna sonora delle imprecazioni andava dal ‘Belin’ genovese al ‘pota’ bergamasco fino a quelle più colorite di Sicilia e Sardegna. Ma c’erano anche stranieri. Tutti uniti verso un obiettivo comune”.

In Italia, spesso siamo abituati a lavori pubblici infiniti, quello del ponte di Genova, regalato da suo padre non solo alla città ma a tutta la nazione e al mondo intero, è un miracolo?

“Non è un miracolo: quando noi ci mettiamo al lavoro, e parlo di tutti gli italiani, dal Trentino fino al Sud e alle Isole, siamo capaci di grandi imprese. La città era tagliata fuori con tutto ciò che ne consegue: Genova è il primo porto italiano, con Genova si fermava simbolicamente l’intero Paese. E questo ha impressionato l’opinione pubblica già fiaccata terribilmente dal lutto di tante vite spezzate da un evento così insensato quanto prevedibile viste le condizioni di degrado di talune parti della struttura. Quando non ci perdiamo in ruberie, inchieste e altre pastoie, possiamo far vedere al mondo quello di cui siamo capaci: il ponte di Genova è una dimostrazione plastica e corale dell’operosità di tutto il Paese. L’acciaio dell’impalcato del ponte è stato realizzato in parte a Castellammare di Stabia, trasportato fino a Genova attraversando tutto il Tirreno. Ma anche nelle fonderie di Genova e a Valeggio sul Mincio in Provincia di Verona. È emerso un orgoglio di cantiere, una voglia inarrestabile di forza, di volontà e di competenza”.

Dopo la riuscita del cantiere del nuovo ponte si è ricordato spesso che l’Autostrada del Sole fu realizzata in soli 7 anni. Perché invece oggi le lungaggini sono storia ordinaria?

“Questa è una bella domanda ma non credo di essere la persona più competente per dare risposte ad un quesito così urgente e attuale visto che le storie di ordinaria burocrazia che bloccano i cantieri sono cronaca di tutti i giorni. Credo che la complessità dei regolamenti, della normativa e dell’ordinarietà di opere non percepite da tutta la Nazione, relegate a lavori pubblici di grigia normalità, spesso brutte e concepite senz’anima e con poca passione, unita a un ordinamento giudiziario cavilloso e datato, siano un mix esplosivo che determinano cantieri infiniti e scandalose incompiute. Nel caso specifico ci siamo salvati per due ordini di motivi, oltre a quelli affettivi e simbolici che ho spiegato prima: il nuovo ponte è stato pagato interamente da Autostrade e in più il Governo ha previsto la figura del Commissario individuato nel sindaco di Genova per snellire qualsiasi tipo di procedura e offrire al mondo intero un’immagine di quello che è il made in Italy anche nel campo delle infrastrutture e cioè velocità d’esecuzione, eccellenza dei materiali, creatività e tecnologia”.

Lei ha studiato lettere e scrive invece di disegnare. Una scelta sua o della famiglia?

“Una scelta mia. A me è sempre piaciuto scrivere e da subito ho intrapreso la carriera di giornalista. Ho conosciuto un vostro ex direttore, il bravissimo Mario Sechi, all’Indipendente e poi al Giornale nella redazione di Genova. L’architettura ha comunque una componente umanistica e anche questo aspetto mi ha sempre affascinato”.

Ogni tanto non le viene il desiderio di poter ripercorrere le orme di suo padre e fare l’architetto?

“Non mi viene questo desiderio perché lui è troppo bravo, è inarrivabile. Poi ha vissuto un’epoca totalmente differente, quella del ’68, con un fermento culturale straordinario che ha plasmato in particolare gli artisti come mio padre, con una genialità difficilmente riproducibile. Una vivacità e una temperie intellettuale che la nostra generazione non ha conosciuto se non attraverso il racconto dei genitori”.

È vero che in gioventù era lei a progettare le marachelle coinvolgendo l’altro suo fratello Matteo e sua sorella Lia? Una volta ha fatto trovare tosati i vostri pastori tedeschi.

“Sì, è vero, ma solo perché avevano caldo. L’ho fatto in buona fede anche se non avevo chiesto ai miei genitori. Ne ho combinato parecchie, devo ammetterlo. Diciamo che anche mio padre non era un santerellino quanto a vivacità. A scuola è stato bocciato due volte ma poi si è ripreso alla grande. Del resto anche Giuseppe Verdi non fu giudicato idoneo nel corso dell’esame per entrare al Conservatorio di Milano, ma poi è diventato il genio della musica che tutti noi conosciamo senza passare per quella prestigiosa scuola”.

Tra i tanti capolavori qual è l’opera di suo padre che predilige?

“Per me il Beaubourg perché è stato l’inizio di tutto. Lui e Richard Rogers, all’epoca quasi due scappati di casa, parteciparono al concorso di idee per quel progetto così avveniristico e innovativo, ma certo non si aspettavano di vincere. Quando telefonarono da Parigi per comunicare l’esito, la segretaria del concorso, parlando ovviamente in francese, utilizzò il termine ‘lauré’ che significa appunto vincitore. Ma, vista la conoscenza del francese dell’epoca pressoché scolastica, mio padre rispose, pensando che stessero chiedendo se fosse laureato, che aveva conseguito il titolo presso il Politecnico di Milano senza capire il vero significato della chiamata che in realtà era finalizzata alla convocazione dei due concorrenti per la consacrazione del progetto prescelto dalla commissione. Fu una sorpresa straordinaria che cambiò la vita di mio padre”.

Cosa ha di particolare per lei il Beaubourg?

“Il Beaubourg nasce come idea ribelle: una fabbrica di cultura nel centro nobile di Parigi era uno schiaffo all’immaginario collettivo che considerava i musei luoghi noiosi e polverosi. Perché costruire un luogo di cultura tradizionale? Nient’affatto. Mio padre, da ribelle qual era, volle stimolare la curiosità dei francesi e concepì il Beaubourg come un opposto rispetto al museo quale casa culturale dell’élite. Del resto il bando stesso conteneva elementi di trasgressività. Lui inserì la sua visione di trasgressione nel progetto, spingendola fino al limite: così facendo ne diede un’interpretazione esplicita che la commissione colse premiando il progetto come migliore tra i tantissimi arrivati da tutto il mondo, anche da grandi archistar di allora”.

La città perfetta?

“È Atlantide, quella che un architetto sogna per tutta la vita e che però sa bene non potrà mai raggiungere in quanto non sarebbe perfetta. Intendo dire perfetta architettonicamente ma anche da un punto di vista civile, un ambiente ideale dove regnano la concordia e l’armonia. Abbiamo parlato della città perfetta nel libro precedente a questo intitolato, per l’appunto, ‘Atlantide, viaggio alla ricerca della bellezza’ edito da Feltrinelli. Per inquadrare al meglio l’argomento bisognerebbe parlare anche di periferie, un tema molto caro a mio padre che sta affrontando il problema con il progetto G124: da quando, nel 2013, è diventato senatore a vita, devolve parte del suo stipendio a giovani professionisti per il ‘rammendo’ delle periferie italiane. Perché se si considera che una residuale parte delle popolazioni delle grandi città sta nei centri storici, che dopo decenni di iniziative di tutela e valorizzazione sono  stati preservati e rilanciati, il resto degli abitanti vive nelle periferie che necessitano un’attenzione innovativa che possa prevedere, ad esempio, una caratterizzazione energetica: in questo modo si potrebbe garantire a vaste zone dei territori di periferia una rinascita fatta di valore, dignità e nuove opportunità di sviluppo. Questa potrebbe essere la città del futuro”.

L.P.

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