Il 15 marzo ricorrono le Idi di marzo, un’espressione che è ormai entrata nel linguaggio comune. Ma vi ricordate a cosa si riferisce?

Partiamo dalla parola: Idi deriva dal latino idus, termine utilizzato dai romani per indicare la metà del mese. In particolare, si riferiva al 15esimo giorno di marzo, maggio, luglio e ottobre e il 13esimo giorno degli altri mesi dell'anno. 

Ebbene, il 15 marzo del 44 a.C. veniva assassinato Gaio Giulio Cesare, il celebre condottiero diventato dictator perpetuus, dittatore a vita: la congiura fu ideata da circa venti senatori che si consideravano custodi e difensori della tradizione e dell'ordinamento repubblicano, contrari a ogni forma di potere personale. Temendo che volesse farsi re di Roma, guidati da «Gaio Cassio, Marco e Decimo Bruto», lo assassinarono con 23 pugnalate. Celebre è la frase che, secondo Svetonio, Cesare ha rivolto a Bruto, uno dei suoi pupilli: «Tu quoque, Brute, fili mi»: “Anche tu, Bruto, figlio mio”. 

La seduta in Senato del 15 marzo era forse l'ultima occasione propizia per l'eliminazione di Cesare che tre giorni dopo sarebbe dovuto partire per una campagna contro i Geti e i Parti: Così la racconta Svetonio nelle Vite dei Cesari: «Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: "Ma questa è violenza!" uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta. Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: "Anche tu, Bruto, figlio mio?". Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi».

La Repubblica, comunque, finì lo stesso: dopo il cesaricidio si innescò infatti una serie di eventi che portò all'emergere del primo imperatore romano Ottaviano, figlio adottivo ed erede di Cesare.

(Unioneonline/D)

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