«Cara Unione,
premetto che sono consapevole di tutte le situazioni nel mondo, e pure in Italia, peggiori della mia. Eppure ti scrivo. Volevo rendere pubblica tutta l'amarezza, e anche il disgusto per come le cose funzionano. Dopo anni di lavoro e studio, laurea e specializzazioni, gavetta nei diversi impieghi (da giardiniere alle pulizie al call center e reception, portapizze e barman: i più comuni li ho provati tutti!), da circa quattro anni lavoro in parte come docente a contratto.

Vengo al punto: mi arriva una chiamata da una scuola fuori città - dove non arriva il treno, a decine di chilometri di distanza - per un part time di 9 ore. Nella mia precarietà, ho passato metà degli ultimi 5 anni all'estero, quindi non possiedo auto. Arrivarci significano 5 ore di viaggio al giorno più 100€ di trasporti, per uno stipendio da 750€. La chiamata è perentoria: o accetto la nomina di supplenza di 9 ore fino al termine dell'anno, o mi depennano dalle graduatorie provinciali. La risposta è da dare entro il giorno stesso.

Per anni, come la maggior parte di docenti precari, ho lavorato su convocazioni: ti mandano l'email, chiamano il primo nella lista tra gli aventi diritto, se non accetti puoi valutare la prossima convocazione. Io non sapevo neanche della possibilità di essere nominato in provincia senza essere interpellato, mia ignoranza, anche se ho chiesto ad alcuni colleghi, e quasi tutti sono caduti dalle nuvole. Tutti sappiamo quanto poco efficace e di poca stima goda la scuola nel Belpaese. Insegnare è un lavoro che adoro, così come desidererei vivere in condizioni dignitose qui in Italia.

E ora tocco con mano questa inedita situazione. Istituzioni che si riempiono la bocca di parole "scuola" "educazione civica" "merito", poi ti danno diktat di questo tipo, e per loro è perfettamente normale. A me suona invece un insulto. È calpestare ogni minimo rispetto, dire a un precario "o vieni oggi, o salti l'anno": come se nel mentre non dovesse badare a se stesso, magari prendendosi giusto quei pochi giorni per almeno cercare di organizzarsi. Ho vissuto all'estero, poi sono tornato perché pensavo di poter realizzare qualcosa nel posto dove sono cresciuto. Per "curiosità" guardo il sito dell'Aire e vedo che oltre 120mila sardi hanno preso residenza fuori Sardegna. Oltre il 40% ha tra i 25 e 35 anni. Penso che rifarò le valigie e sarò tra quelli, mi pento solo di non averlo fatto prima.

Saluti».

Davide Ardu

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