«Gentile presidente Giorgia Meloni,

mi sento autorizzato a scriverle in seguito alle sue dichiarazioni sul PNNR da lei definito come una grande occasione per la sanità. Alzo la mano per prendere la parola circa il suo desiderio di entrare nel merito delle cose e al richiamo alla responsabilità di assegnare, con coscienza, la priorità agli interventi.

Vorrei poterle raccontare, se non le dispiace, alcuni dettagli che potrebbero darle degli elementi validi per una valutazione della priorità di intervento su quello che per anni è stato il mio mondo, un mondo che in questa pagina del sito del suo governo ha ottenuto un focus molto interessante e che il Rapporto OMS e ADI già nel 2012 ha definito una priorità mondiale di salute pubblica.

Vorrei poterle raccontare cos’è la demenza e farle affondare i piedi nel mondo buio di questa malattia.

Nel mio mondo, in Italia, sono ufficialmente coinvolte, direttamente e indirettamente, 3 milioni di persone, ma ho buone ragioni di credere che siano molte di più, visto che non a tutti sono spalancate le porte di un percorso diagnostico. In ogni caso, anche fossero 3 milioni, ho la sensazione si tratti di un numero abbastanza degno di nota.

Chiedo scusa se non mi soffermo sulle statistiche, sugli approfondimenti scientifici, sulle percentuali di incidenza dell’Alzheimer sul totale delle demenze. Ho avuto poco tempo per occuparmene durante i miei anni di malattia.

Vorrei saperle raccontare bene e farle assaggiare anche solo da lontano il terrore che mi ha travolto quando la demenza (di tipo vascolare) mi si è attaccata addosso, l’estenuante lotta che ho intrapreso per negarla, sottoponendo me e tutta la mia famiglia a una sofferenza bestiale.

Sono morto il 7 gennaio di quest’anno, a 76 anni, per il mio debole cuore che ha deciso di spegnersi. Diciamo che l’Epifania quest’anno, insieme alle feste, si è portata via anche me. Ho lasciato improvvisamente soli i miei ragazzi e mia moglie, ma allo stesso tempo sono uscito da un incubo in cui avevo trascinato anche loro.

Sono stato accudito come pochi fortunati, con tutte le cure e attenzioni possibili, e ho sentito ogni singola molecola di amore che girava nella mia casa e, mi creda, ne giravano davvero parecchie. Le ho ricambiate tutte, ma senza riuscire ad esprimerle. Mi son sentito amato ma non ho potuto amare se non con gli occhi, con le lacrime che venivano giù da sole per la delusione che tutte le volte provavo ad afferrare sentimenti da tradurre in parole che, però, puntualmente mi scivolavano via, mollandomi con quella sensazione di vuoto e smarrimento che mi ha accompagnato sempre, fino alla fine.

Ho visto sconosciuti davanti a me che mi guardavano spaventati e io ero più spaventato di loro. Poi mi chiamavano papà, e la loro voce in qualche modo mi arrivava nel cuore, che riusciva a riconoscerli prima del cervello. Allora il mio sguardo vuoto cambiava, diventava di nuovo lo sguardo di un padre, e per un attimo, ma solo per un attimo, si riempiva di qualche ricordo. Però era straziante, soffrivamo tutti di ferite che vedo ancora sanguinare.

Vorrei poterle dire cosa si prova a non riuscire a controllare più i propri bisogni primari, ad accettare di farsi lavare nudi da qualcun altro. Una cosa che poi ho accettato, ma non la dimenticherò mai la sofferenza dei miei figli, e di mia moglie, mentre si inzuppavano d’acqua e appesantivano le braccia e l’anima per potermi tenere dignitosamente pulito. Nonostante l’amore, quelle coltellate che loro sentivano al cuore in quei momenti, le sentivo tutte anch’io.

Ho nascosto e perso qualsiasi cosa, in chiunque ci ho visto un ladro, con le mie allucinazioni, ho accusato i miei figli di avermi sottratto il portafogli, a mia moglie ho fatto sparire la patente perché se non potevo guidare io, non doveva farlo nemmeno lei. Ci sono stati dei periodi in cui i miei figli dormivano vestiti sul divano, con le chiavi dell’auto in mano, perché durante la notte poteva succedere qualsiasi cosa se per caso mi fossi svegliato. Li ho visti piangere e schiacciarsi dai sensi di colpa per avermi dovuto dare dei farmaci per dormire e farmi stare tranquillo. Per anni ho riempito il salotto, ogni santa sera, con tutto quello che c’era nel mio giardino, mobili, piante e secchi della spazzatura compresi, per la paura che me li rubassero. E al mattino rimettevo tutto a posto, perché alla luce del sole potevo di nuovo sorvegliarli.

Ho visto i miei familiari mangiare al tavolo, tutti insieme, nei giorni di festa, mentre io stavo in poltrona a guardarli senza capire come mai io non fossi lì con loro. E loro mangiavano veloci e con gli occhi lucidi per non prolungare quello strazio di non avermi in tavola con loro, sapendo che se fossi stato lì, avrei riempito d’acqua i piatti, mi sarei fatto male col coltello, avrei mangiato la frutta col sale o mi sarei riempito la bocca con del cibo che poi non sarei riuscito a ingoiare, rischiando di soffocare. Sì, perché a un certo punto, ho iniziato anche a dimenticarmi di ingoiare il cibo.

In tanti sono convinti che avere la demenza significhi solo dimenticarsi delle cose, i nomi, i volti, quello che si è fatto poco tempo prima. Invece ho dimenticato cose, ho dimenticato persone, ho dimenticato me stesso. Ho dimenticato come si va in bagno, come si apre il rubinetto dell’acqua, come si si ingoia la pasta, come ci si veste. Ho messo i maglioni di lana d’estate, l’accappatoio al posto del giubbotto e ho conversato a lungo con quelle persone che stavano dentro il televisore. A volte ho anche provato a farle venire fuori ma loro restavano lì, mentre sui cristalli liquidi dello schermo restavano impresse le impronte delle mie dita.

E poi sono stato male e non ho saputo dirlo a nessuno. Ho avuto i crampi alla pancia, il mal di testa, il mal di schiena, ma non ho mai potuto raccontare il mio dolore. Non entro nei dettagli perché ci sono cose che fanno talmente male, che ti privano talmente tanto della dignità, che non riesco nemmeno a raccontarle.

Questa, Presidente, è la demenza.

E le persone che amo di più hanno dovuto prendersi cura di me come fossi un bambino. Hanno dovuto fare i conti con l’ansia, il terrore, la sofferenza di vedermi perdere i pezzi piano piano, uno al giorno, senza tregua, senza pietà. Hanno affrontato spese, spese immense, di quelle che la maggior parte delle famiglie non possono affrontare, per poter dare un supporto a mia moglie che ha raschiato forza, pazienza e resistenza da un fondo di energie già largamente consumato.

Li ho visti uscire dal portone di casa con gli occhi carichi di lacrime, ho sentito il loro dolore senza poterli consolare come fa un padre, come fa un marito, come fa un nonno. Alla fine, io, non ho potuto far altro che abbandonarmi al loro immenso amore, a loro che sono stati forti, meravigliosi, uniti, attenti e pazienti ma tremendamente soli.

Soli, Presidente. Totalmente. Soli come sono sole tutte le famiglie che incontrano in qualche modo la demenza.

Immagina cosa significhi essere soli nel cercare aiuto, muoversi nel mondo delle assistenze domiciliari, annaspare per trovare qualcuno di fidato, qualcuno che oltre la sostituzione di un pannolone sia anche capace di provare empatia, qualcuno che voglia lavorare il sabato o la domenica, trovare le risorse economiche, quelle energetiche per sopravvivere? Ha idea di quanto supporto abbiano bisogno i caregiver e di quante cure e attività stimolanti vengono negate ai malati?

“La libertà è quel bene che fa godere di ogni altro bene”. Le ha ricordate lei queste parole di Montesquieu.

Ma ha idea, Presidente, di quanta poca libertà ci sia nell’essere rinchiusi in un corpo che non si riconosce più e che chiude tutti i canali di comunicazione con l’esterno? La mia malattia ha smesso di nutrirsi di me e delle energie dei miei cari il 7 gennaio. La morte è stata la fine di alcune sofferenze, e l’inizio di altre. La morte arriva per altre cause, perché di demenza non si muore, si vive e basta, anzi, si sopravvive.

Ma pensi che Italia migliore sarebbe se, per alleviare le sofferenze dei malati e dei loro familiari/caregiver, non ci fosse più bisogno di attendere, con impazienza, la morte.

Potrebbe, questa, essere considerata una priorità?

Non dimentichi di dare una risposta a chi è ancora vivo.

Un saluto cordiale”.

Ignazio Ghiani – Morto a Quartu Sant’Elena il 7 gennaio 2023

***

***

Potete inviare le vostre lettere, segnalazioni e contenuti multimediali a redazioneweb@unionesarda.it specificando il vostro nome e cognome e un riferimento telefonico. Nell'oggetto dell'email chiediamo di inserire la dicitura #CaraUnione.

(La redazione si limita a dar voce ai cittadini che esprimono opinioni, denunciano disservizi o anomalie e non necessariamente ne condivide il contenuto)

© Riproduzione riservata