“Cara Unione,

è delle ultime ore il report Istat sui dati di frequentazione dei bambini da 0 a 3 anni dei nidi d'infanzia, che in Italia si attestano sotto la media europea e di molto, con dati che lasciano ben poco all'interpretazione.

Il fatto è chiaro: il servizio del Nido di Infanzia non è considerato essenziale nella società che ereditiamo. Il servizio non esiste se non per chi può permetterselo e di base si pone come ‘alternativa’ all'assistenza familiare delle donne.
Già il fatto che si tratti di servizio approntato dai Comuni e non dal Ministero dell'istruzione la dice lunga.
Inoltre non ci sono sufficienti posti nei nidi comunali e sufficienti soldi destinati ai bimbi in età pre-scolare. I Comuni si arrabattano per arrivare ad un compromesso, sussidiando chi, in base all'Isee non ce la fa e/o favorendo le coppie ove entrambi i genitori lavorano. I nidi aziendali sono pochi ed insufficienti.
Un posto al nido comunale, ricordiamocelo, costa, a tariffa piena (cioè per maggioranza di chi ne usufruisce, stante l'esiguità dei fondi di sostegno) circa 500 euro al mese per bambino.
Il che significa che la dimensione pubblica dell'infanzia 0-3 anni è pressoché assente. Il figlio non entra a pieno titolo fra i destinatari dei servizi pubblici d'infanzia, fino alla scuola materna (e anche lì con non poche eccezioni) ed elementare.
Se ci poniamo qualche domanda, come collettività, vedremo che alla base di questo gap istituzionale c'è l'eredità pesante di cosa significhi accudire i figli molto piccoli, e a chi spetti farlo.
Le attuali politiche sulla primissima infanzia cozzano del tutto con gli approdi delle neuroscienze, azzerando ogni politica di tutela del lavoro femminile, uno schiaffo ad ogni tentativo di riequilibrio di genere.
C'è ancora una larga parte di persone che pensano che l'asilo nido sia un luogo di scarto, un posto dove piazzare la creatura, e dove verosimilmente si ammalerà in continuazione. L'assetto normativo istituzionale che regola il servizio è frutto di questa ignorante visione. Soprattutto, è il frutto di una schiacciante diseguaglianza di genere, che si approfitta del dato naturale (la donna partorisce ed allatta ed è normale che per qualche tempo scenda dalla ruota lavorativa) per approfittare dei servizi assistenza che ella dà, sia come madre, ma anche come nonna, in un mondo che relega la maternità a questione privata.
Ecco cosa succede dunque alla coppia di neo genitori: se la mamma lavora? Ci penseranno i nonni. Col fatto che tradisce l'idea che i nonni siano considerati di default competenti per lo sviluppo dei nipoti. O meglio, non essendo riconosciuta importanza pedagogica alcuna al periodo, il bambino può stare con chiunque. Se ci sono i nonni, vada per i nonni. E se i nonni non ci sono, o non possono, o non vogliono, o non sono, appunto, competenti?
Ed è lì, e solo allora che subentra il nido, come ultima opzione, quasi come ‘riparazione’ per l'assenza di altro e più vicino personale femminile. E infatti, che sia chiaro, noi ‘pubblico’ ripariamo con pochi posti a pagamento e, tendenzialmente, solo se lavorate entrambi.
Accade, infatti, che se lavora solo uno dei due genitori (quasi sempre il padre), ciò graverà negativamente sul punteggio stesso per entrare al nido. Perché di posti al nido ‘comunale’ non ce n'è solitamente per tutti e finirai in graduatoria.
In altre parole, dopo il danno la beffa. 
Secondo voi perché le donne non fanno più figli?”

Claudia Moretti – Legale e consulente Aduc

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