C ome ogni estate ci si riunisce al capezzale del giornalismo e, fra un dibattito e una diagnosi, rispunta il vecchio adagio “Sui giornali finiscono solo le cattive notizie”. È una frase che abbiamo sentito spesso e che tutto sommato è fondata. Meno condivisibili, invece, il tono amareggiato con cui viene pronunciata e l’idea (implicita) che sia il sensazionalismo piccino dei cronisti a spingerli su catastrofi & affini per vendere la fatidica copia in più.

In realtà sui giornali più che le notizie brutte o belle funzionano i contrasti, esattamente come nella vita: se sono sano fa notizia che mi ammali, se sono malato fa notizia che guarisca. E così i titoli del 1939 che annunciano la guerra sono grandissimi e nerissimi come quelli del ‘45 che urlano la pace.

In un certo senso il fatto che in prima pagina ci siano soprattutto cattive notizie è una buona notizia: significa che il contrasto si realizza fra un episodio negativo e uno stato di cose generalmente positivo. Un titolone su una persona morta di fame nel centro di Cagliari ci stringerebbe il cuore, ma implicherebbe che di solito tutti mangiamo a sufficienza e quotidianamente. Sarebbe orrido se a fare notizia fosse il fatto che non moriamo più per denutrizione

Per tirare ancora una volta Brecht per la giacchetta, beato il popolo che non ha bisogno di buone notizie.

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