T utti a dire che politicamente è finito. Non è vero. Conte Giuseppe non è finito. Non è finito perché non ha mai cominciato a esistere. La sua è una vita apparente. Si presentò a Mattarella come l’avatar di Gigi Di Maio e con le credenziali di Fofò Bonafede. La spinta decisiva, da dietro le quinte, gliela diede il buttafuori Beppe Grillo. Con i voti della Lega di Matteo Salvini in crisi esistenziale, come in una surreale commedia dell’arte si svegliò capo del governo. Sarà una meteora, pronosticarono quelli che leggono il futuro. Fu invece un meteorite. Che si abbatté sull’Italia provocando danni a lunga persistenza. Convintosi di esistere occupò tutti i canali della Tv, compresi quelli di scolo. Compariva quando meno te lo aspettavi. Nulla aveva da dire, ma lo diceva. «Langue de bois», lingua di legno, ironizzano in casi simili i francesi: metafora che indica una successione di parole vaghe e ambigue. Defenestrato ma non domo, tradendo e brigando si è impossessato del covile dei grilli, del cui esercito in rotta si è proclamato condottiero. Da quel momento fa il presenzialista. Lo si trova ovunque. Longanesi direbbe di lui: «Ai matrimoni vuol fare la sposa, ai funerali il morto». Avventuratosi in mare aperto ha fatto naufragio elettorale tra i marosi dell’Ue: la ciambella di salvataggio di Elly Schlein era bucata. Ma lui non se n’era accorto.

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