I eri il carnevale è finito in un pugno di cenere. È terminata la grande baldoria, le cui radici affondano nelle civiltà più antiche: vi si fondono sacro e profano, consuetudini cristiane e ancestrali riti pagani. La maschera, che ne è simbolo ambiguo, nasconde la nostra seconda natura tenuta a freno dalle convenzioni sociali. Il carnevale è metafora, è similitudine sottintesa. Va oltre il suo significato apparente, diventa allegoria. Il misero sbeffeggia il potente, il plebeo deride e dileggia il nobile; ma allo scoccare della mezzanotte le funzioni e i ranghi si ristabiliscono. Il sovvertimento dell’ordine è effimero come una risata carnascialesca. Dietro le maschere si celano i volti di coloro che nell’anonimato trovano il coraggio meschino di esaltare vizi e dissolutezze, offendere i superiori, camuffare i difetti del corpo, trasfigurare i ruoli, anche quelli del sesso. Durante il baccanale si sta tutti insieme sulla scena, si fischia e si applaude, si è contemporaneamente attori e spettatori. Lo scorrere del tempo è momentaneamente sospeso. Più si è trasgressivi più ci si illude che nella follia del caos si possano affogare affanni e afflizioni. Invece, spentesi le luci dei falò purificatori, la realtà riprende il sopravvento. Dopo i giorni “grassi” ci morde lo stomaco il digiuno della quaresima.

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