F ino a sette mesi fa il governo dell’Italia era nelle mani di dilettanti buontemponi, più pericolosi che divertenti. Dopo avere vinto una battaglia elettorale sganciando le bombe euforizzanti della demagogia, vi si erano installati come truppe d’occupazione. Avevano idee bislacche sulla funzione dello Stato, sull’economia, sulla giustizia, sui rapporti internazionali. Il direttore dell’orchestrina era un improvvisatore emerso da un piccolo borgo pugliese; i ministri erano stati estratti a sorte; la competenza era vietata perché inutile; la politica estera era schizofrenica e strabica: con un occhio guardava all’atlantismo, con l’altro civettava con la Cina. Il Nume del Colle fingeva di non accorgersi dei rischi. Ma quando vide i convitati giallorossi, attovagliati alla romana, ingolositi dai 248 miliardi europei del Piano di ripresa economica, sparecchiò la tavola. Oggi, oltre alla nostra economia, ne beneficia la politica estera. Nella crisi internazionale afghana l’Italia è coprotagonista di primo piano come mai era accaduto in analoghi contesti. Il nostro premier è la voce più autorevole e propositiva in Europa. Parla da pari a pari con i grandi della Terra. Dopo il buio e la palude un filo di luce e d’ottimismo. È bastato mettere un Drago italiano al posto di un Conte-Grillo cinese.

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