S i racconta di un pubblico ministero che vorrebbe l’assoluzione di un tizio arrivato dal Bangladesh accusato di maltrattare la moglie perché in quel Paese si usa far così. Si tratterebbe di “un fatto culturale”: ammazzare di botte la propria moglie per i “macho” bengalesi sarebbe un diritto, come l’infibulazione per molti paesi dell’Africa e del Medio Oriente, o la pena di morte in alcuni Stati della magica America. Per fortuna da noi non funziona così. Abbiamo debiti e difetti ma c’è ancora chi si commuove davanti alla tivù. Viviamo in un Paese dove le leggi possono essere contestate ma devono essere da tutti rispettate: italiani e stranieri, musulmani e cristiani, ricchi e poveri. Chi non si adegua o lascia questo Paese oppure, se insiste, giusto processo e giusta condanna. Il “fatto culturale” non è una scusante ma un’aggravante; il processo, se ci sarà, dirà se il fatto è provato e si spera sottolinei che in questo Paese non è obbligatorio sposare la cultura ma non ammette il divorzio dalle leggi. I problemi non mancano, fatichiamo; la giustizia perde colpi e viaggia a scartamento ridotto, è così lenta che non poche volte lo Stato dimentica i tempi della giustizia: reato prescritto, liberi tutti. Non mozziamo la mano al ladro, dalla Carta de Logu di riforma in riforma siamo arrivati ai lavori socialmente “inutili”. In nome del popolo italiano.

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