L e responsabilità individuali e la sostanza penale dell’inchiesta Monte Nuovo sono ancora integralmente da apprezzare, e se non per civiltà va ricordato almeno per prudenza. Ma politicamente, e soprattutto antropologicamente, quelle carte sono già molto significative. Soprattutto per il ritratto che fanno della nostra classe dirigente, con un’inquietante enigmistica da agriturismo che consente di disegnare il profilo del nuovo potere sardo unendo gli spuntini.

Ma soprattutto queste prime mosse investigative, e le ipotesi di reato che le animano, nella loro ancora indimostrata e ipotetica plausibilità bastano e avanzano per dissipare uno dei più bolsi luoghi comuni, e cioè che la nostra non può essere terra di mafia perché “il sardo è individualista”. Pagine storiche - positive come il movimento cooperativo o dark come la rete dei sequestri – smentiscono da tempo questo stereotipo. Eppure in molti se lo raccontano ancora, in un orientalismo di ritorno che ci fa amare la nostra immagine più naïf: matriarcali (ma sappiamo quante donne guadagnano meno dei colleghi e parigrado uomini?), diffidenti (chi se non noi credette in coro al petrolchimico?) e poi orgogliosi, fieri e giù con le cartoline di sughero. C’è chi si crogiola ancora in questa roba, e buonanotte a Rilke che avvisava: il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima che accada.

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