V isto che ormai lo smartphone ce l’abbiamo tutti, Agcom vuole smantellare le cabine. E con questa botta di cancel culture ci lascerà come tanti bifolchi born in the Usa senza più statue dei generali sudisti.

Quei parallelepipedi bruttini e trasparenti sono 18mila monumenti a un’Italia che non c’è più, ma che non faceva niente di male ed era anche simpatica. C’era un comunista che per lavoro aveva uno dei primi cellulari, un barrasone da 5 chili, e temendo di sembrare yuppie per usarlo si nascondeva in una cabina. C’era un ginnasiale che per integrare la paghetta frugava in tutte le vaschette del resto a caccia di gettoni dimenticati. Pare che una volta su cinque funzionasse. C’era il compagno di scuola metallaro e antagonista che chiamava gratis facendo un accrocchio illegale col cavo della cornetta. Lo chiamavano “Benito” (l’accrocchio, non il metallaro), vattelapesca perché. C’era chi si fidanzava in un’altra città, lo riconoscevi perché marciava verso la cabina con lo sguardo trasognato e le tasche tintinnanti di gettoni. E c’erano gli scemi, quei meravigliosi e innocui scemi che siamo stati tutti. Con duecento lire chiamavi in discoteca e urlavi: “Abbassate il volume!”. E quelli: “Ma chi parla?”. “Eh, sono Pistis del piano di sopra. Io vi denunzio!”. E giù a ridere fra tre pareti di plexiglass graffiato, mentre i passanti guardavano con compatimento.

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